Aprirlo, anzi riaprirlo, ricostruire dalle fondamenta un teatro che c’era già: stiamo parlando del Nuovo Teatro Abeliano, che Vito Signorile, dopo tre anni di inattività, ha ricostruito nel quartiere Japigia.
Lunga è la storia dell’Abeliano. La compagnia che fa riferimento al teatro nasce infatti nel 1969, sull’esperienza dei gruppi teatrali di base, costituendosi in cooperativa nel 1973.
Sin dagli esordi la compagnia ha gestito anche un suo spazio teatrale dopo aver ristrutturato e utilizzato seminterrati e capannoni industriali.
In oltre trentacinque anni di attività il Gruppo Abeliano ha prodotto una settantina di spettacoli, dai grandi classici agli autori contemporanei, alle produzioni scolastiche e per ragazzi, realizzando una media di 130 recite l’anno, con un volume complessivo medio di 60.000 spettatori per stagione, tra esercizio e produzione.
Il Gruppo Abeliano è la prima struttura professionale teatrale organizzata in forma cooperativa in Puglia, ormai al quarantatreesimo anno di ininterrotta attività di produzione e ospitalità, riconosciuta dallo Stato in convenzione con il Comune e la Provincia di Bari e il sostegno della Regione Puglia attraverso progetti triennali.
E forte di questa storia, il nuovo teatro Abeliano, su disegno di Luca Ruzza, rinasce nel 2012 in via Padre Kolbe, con 300 posti e pronto ad ospitare la polivalente e articolata attività del centro.
L’attività è stata inaugurata lo scorso settembre con “Open today”, manifestazione che ha chiamato a raccolta artisti, sostenitori e affezionati, che hanno voluto segnare la propria adesione al nuovo progetto con spettacoli di repertorio o in anteprima, scegliendo la scommessa di andare in scena già a partire da settembre, mese inconsueto ormai per le programmazioni teatrali.
Abbiamo incontrato Vito Signorile dopo aver visitato la bellissima e luminosa struttura, che ci ha accolto in una giornata di dicembre, con il sole pugliese a varcarne la facciata tutta di vetro.
Che senso ha aprire un teatro in tempo di crisi e soprattutto al Sud?
Non mi sono mai chiesto che senso avesse per me aprire un teatro, l’ho semplicemente sentito come un sogno e come una realtà allo stesso tempo. È la stessa sensazione di quando sei innamorato e desideri vivere insieme alla persona che hai scelto, desideri avere una casa insieme o comunque uno spazio di vita comune. Ecco, il teatro è uno spazio di vita, uno spazio da abitare con questa strana innamorata fuggente che è l’arte scenica e con gli spettatori.
Nei tre anni in cui il Gruppo Abeliano è rimasto senza casa non mi sono mai posto il dubbio di rinunciare all’idea di uno spazio teatrale, nonostante ci siano voluti moltissimi sforzi per arrivare a questo nuovo spazio. Quasi tutti lo hanno definito una follia, ma per me e per i miei collaboratori più stretti non era immaginabile continuare a fare teatro senza poter incontrare quotidianamente l’altra metà del nostro palcoscenico: le persone, gli spettatori. Dico quotidianamente perché, al di là dell’occasione spettacolo che riguarda le serate di programmazione, durante tutta la nostra attività, in ogni spazio che abbiamo gestito, il teatro è sempre stato un luogo di accoglienza, teatro cittadino nel senso stretto del rapporto con il territorio.
Il botteghino, ad esempio, è aperto ogni giorno, non certo perché ogni giorno si vendono biglietti, ma perché la gente passa da teatro, chiede informazioni, scambia opinioni, si trattiene, costruisce un dialogo. Poi magari scopri che quella persona che passa ogni giorno e con cui scambi qualche battuta, a teatro non è mai andata o non ha mai comprato un biglietto perché ha semplicemente paura di cosa succede quando si spengono le luci e comincia lo spettacolo; allora un giorno la inviti e avviene un altro livello di incontro, un incontro capace di toccare le emozioni e i sentimenti, l’unica cosa che conta nella vita.
Ecco questo è il senso: poter avere con le persone un incontro altro, più vero, un incontro che pone al centro della relazione l’arte ma tutto intorno la vita.
Al Sud forse è più difficile, la crisi si sente di più, il tasso di disoccupazione e di inoccupazione di questi ultimi anni è ben più alto di quanto si racconta, e siamo ancora in una società che considera il teatro un bene superfluo, ma io sono del Sud da quando sono nato, quindi non me ne posso porre il problema.
Quali saranno le linee della sua programmazione?
Questa prima stagione di apertura fa parte di un progetto triennale ideato per festeggiare il nuovo teatro; l’ho chiamato Happy New Theatre e ha costituito, e lo sarà fino alla fine, una sfida: teatro aperto ogni giorno dal martedì alla domenica, programmazione intensa, progetti speciali, eventi.
Nel 2013 ci concentreremo su tre assi portanti: la programmazione storica dell’Abeliano che è “Actor”, una rassegna che ha sempre ospitato a Bari le maggiori compagnie nazionali ponendo attenzione, anche se non in maniera esclusiva, al rapporto con i testi teatrali e al modo con cui il teatro d’attore li interpreta e li fa rivivere; rafforzeremo “A teatro con mamma e papà”, ovvero il teatro per l’infanzia e per i ragazzi, in cui crediamo molto sia perché il nuovo teatro si trova in un quartiere molto popoloso e del tutto privo di servizi alle famiglie, sia perché siamo convinti che sia un atto di grande civiltà e di scommessa nel futuro permettere alle famiglie di trascorrere un tempo attivo con i propri figli. Continueremo, dandole ancora più spazio, “To the Theatre”, la programmazione dedicata alla drammaturgia contemporanea e alle nuove generazioni teatrali, che propongono una visione-mondo attenta alle dinamiche storico sociali e alle contraddizioni del presente attraverso un teatro concentrato prioritariamente sulle relazioni interne alla scena. Esattamente come avveniva per il Gruppo Abeliano all’inizio degli anni ’70.
Accanto a queste tre assi portanti vedremo cosa ci riserva il futuro e il territorio. Abbiamo tanti sogni e tante idee, ma non tutte potranno realizzarsi nell’immediato.
E quelle produttive?
Nel 2012 ho inaugurato un progetto triennale di teatro per ragazzi dedicato alle fiabe popolari della tradizione pugliese. Si tratta di un lavoro che parte da lontano: molti anni fa collaborai con il Dipartimento Scuola Educazione della Rai per un’indagine sulla tradizione orale fiabesca al Sud. Registrai per radio Rai cinque fiabe pugliesi, che come spesso accade ho scoperto essere delle varianti di fiabe presenti anche in altre tradizioni regionali e citate anche dal Basile nel Cunto.
Il progetto prevede la messa in scena di tre di queste fiabe, la prima ha debuttato qualche mese fa, il titolo originale è “Scortica scortica” ma per il teatro è stata ribattezzata “C’era una volta un re”. È una storia straordinariamente semplice ma con un’impressionante attualità, dal momento che il titolo originale rimanda allo scorticamento della pelle fino a morirne pur di ritornare giovani.
La seconda fiaba che debutterà nel 2013 è “La regina Taitù”, una fiaba dimenticata ma che è stata talmente popolare nella nostra tradizione al punto che è un modo di dire tipicamente barese per riferirsi alle ragazzine un po’ troppo presuntuose e vanitose.
A un teatro per tutti, adulti e giovani, invece è dedicato il progetto con Raffaele Nigro, giornalista e scrittore pugliese di cui ho appena messo in scena la fiaba contemporanea “Desdemona” e “Cola Cola”, a cui seguirà lo spettacolo “Corpo di Ballo”. Nigro nei suoi testi tratta sempre questioni esplicitamente contemporanee. In “Cola Cola” c’era il tema delle migrazioni e dell’integrazione, in “Corpo di ballo” c’è il tema della pazzia. Vedremo, sarà una bella scommessa. E poi c’è il repertorio più recente che conto di riprendere.
Cosa vuole dire fare un teatro che affonda le sue radici nella tradizione?
La tradizione è il rapporto della vita con la memoria, quindi con il sé. Se non ricordassimo la nostra infanzia, non sapessimo preparare un piatto di cucina casalinga, non sapessimo potare un pianta, non potremmo nemmeno interessarci all’infanzia di oggi, né potremmo apprezzare una buona cucina preparata al ristorante, né interessarci di agricoltura alternativa. La tradizione è quello che ci permette di vivere il presente e di interpretarlo. La tradizione ci permette di riconoscere i cambiamenti e di amarli.
Quando si parla di teatro di tradizione si dice tutto e nulla, anzi spesso si usa questo termine per definire un teatro semimorto. Per me un teatro che tiene presente la tradizione tiene presente l’attore, ovvero una persona che in scena è capace di usare tutto il suo corpo, la sua testa e il suo vissuto per credere fino in fondo alla finzione scenica, al punto da trasformarla in verità al presente, e quindi di comunicare questa verità agli spettatori. Questo è quello che mi ha consegnato il teatro “di tradizione” e questo prescinde che si stia mettendo in scena Shakespeare o una drammaturgia originale.
Quali sono state le sfide che ha dovuto affrontare e quelle maggiori che prevede per il futuro?
La sfida più dura è stata quella con la burocrazia. Il teatro era pronto già da febbraio, ma le lungaggini burocratiche ci hanno costretto ad aprire a settembre. Questo è stato pesantissimo e ci ha causato molto danno. Ma alla fine tutto è bene quel che finisce bene. Quello che dovremo affrontare è ciò che affrontiamo da sempre, una scarsissima attenzione sociale ed economica a un settore produttivo che invece potrebbe costituire non solo un vero volano di sviluppo, ma soprattutto un motore di civiltà e di ripensamento sociale. Ma questa non è una sfida solo nostra, riguarda tutto il Paese e il dibattito sul Benessere Interno Lordo.
Quali saranno le strategie adottate per un proficuo rapporto con il territorio?
La strategia sarà quella sperimentata e consolidata negli anni: costruire una comunità teatrale, non tipicizzata e identitaria. Il nostro pubblico, quello che da anni segue “Actor”, è già abituato a gustare l’interpretazione di un testo, classico o moderno, proposto da un attore famoso o meno, semplicemente giudicandolo dall’emozione che riesce a trasmettere insieme alla storia.
La differenzazione di titoli e rassegne resta semplicemente un espediente di avvicinamento a generi e generazioni; la nostra scommessa è quella di costruire una comunità di spettatori che si scambi impressioni e curiosità, che abbia come unico riferimento la qualità del teatro che proponiamo, che cominci a sentire il teatro come una necessità, un ritorno alla misura d’uomo.
Vito Signorile ..è un grande! Grazie