E da qui siamo partiti per intervistarla.
In “Passo” c’è molta ironia, un’ironia che deriva dal quotidiano, da piccoli gesti e piccole azioni da cui prende spunto la partitura gestuale. Ecco, parliamo un po’ del rapporto, nel tuo spettacolo, fra ironia e danza.
La questione dell’ironia è molto presente nel lavoro, e io l’ho scoperta perché mi ci sono trovata dentro. Nel primo assolo che ho fatto (“Eda”, del 2004), una piccola cosa, un primo tentativo di scrittura, non ero per niente partita dall’idea di fare qualcosa di ironico, non avevo idee, ma solo il desiderio di mettermi a costruire a partire dal corpo. Poi è venuta fuori una cosa che ha come aspetto dominante quello ironico. Nel lavoro successivo nuovamente è emersa questa questione. Poi mi sono accorta che la presenza dell’ironia aveva un interesse per me. La vera difficoltà è stata come fare a non cavalcarla troppo, a non marciarci sopra, quindi a non rischiare di cadere nell’ammiccamento, un rischio che è sempre presente, perché nei miei lavori siamo sempre su un limite. Non avevo l’intenzione di far ridere, ma di accogliere una caratteristica che emergeva dal lavoro, di cui sono anche contenta. Però sto ancora imparando a capire come gestirla.
L’ironia credo che derivi dall’assumere fino in fondo quell’azione su cui si sta lavorando, ma allo stesso tempo osservarla con distanza. Questo sguardo credo che sia quello che dà questo aspetto ironico. E poi anche nella vita mi pare così: ad esempio ciascuno, anche sul suo dolore, può scherzarci su guardandolo da fuori.
Rispetto a “Passo” l’aspetto ironico deriva da come le cose paiono avere un senso e poi ne hanno un altro, da una qualità di stare in scena un po’ giocosa, ‘tontolina’, che abbiamo.
Nel lavoro ho notato anche una analisi della realtà per frammenti. Come catturi questi frammenti nella tua osservazione della realtà?
Il fatto che tu osservi che si tratti di frammenti dipende dall’approccio, nel senso che io ho davanti la realtà, come noi tutti, e attingo da quella; però attingendo da lì prendo un pezzettino, un altro, e di fatto, una volta trasposti sulla scena, risultano poi frammenti. Ma il discorso è tutt’uno: prendo qualcosa che mi attrae di piccolo e lo porto in scena, e a questo punto c’è una specie di lente di ingrandimento su qualcosa di piccolo, di apparentemente insignificante, che invece prende centralità perché è messo lì, sulla scena. Del perché certe cose mi catturano e altre no, non saprei dire, forse l’istinto…
In “Passo” si sottolineano gesti quotidiani intimi per delineare il carattere di un personaggio, per sottolinearne l’aspetto umano, un certo modo di stare al mondo.
Quelli sono gesti che uno tranquillamente compie quando è solo o in una situazione molto di agio, con i colleghi di lavoro, perché tra danzatori si condivide davvero talmente tanta vita quotidiana che si ha una libertà anche rispetto ad aspetti intimi; ad esempio il gesto di aggiustarsi le mutande ricorre in prova e neanche ci facciamo caso. C’è un contatto corporeo continuo, cosa che in altri ambienti di lavoro non capita, intimo, in un contesto in cui questa intimità è possibile. Quindi cerchiamo di osservare questa dinamica che accade in prova e portarla espressamente in scena – cosa che magari di solito non si fa -, e poi giocare sul fatto che all’inizio può sembrare un errore e invece poi diventa chiaramente una scelta.
Nel tuo percorso artistico hai collaborato con molti danzatori; poi dal 2004 ti sei dedicata a tue creazioni personali. Attualmente fai parte della compagnia Aldes, diretta da Roberto Castello.
Con Aldes c’è una doppia collaborazione, nel senso che sempre meno purtroppo, dal 2010, ho il tempo di fare prove con Roberto e di andare in scena con lui, e me ne dolgo. Questo accade perché ho tanto lavoro personale, e alla fine ho scelto questo. Con Castello mi è capitato di essere in scena lo scorso anno solo per un giorno con una proposta particolare. Quindi in sostanza non vado più in scena con lui. Però trovarmi a essere solo interprete è stato bellissimo: in effetti l’aspetto creativo permane, poiché con Roberto l’interprete è molto propositivo, però sei sgravato della responsabilità iniziale e finale del progetto: ed è una meraviglia dopo mesi di gestione di un gruppo e di responsabilità creativa!
Con Aldes, in questo momento, la collaborazione è proprio tra più autori perché ci sono anche Francesca Foscarini e Stefano Questorio. Diciamo che più che un collettivo siamo un raggruppamento di autori che si sono scelti per vicinanze poetiche ma soprattutto umane, per onestà, e abbiamo in comune gli aspetti più tecnici, cioè l’amministrazione, la consulenza del lavoro, il commercialista, tutte quelle spese ingenti che una compagnia ha e che vengono messe in comune, e poi la distribuzione. Diciamo che in realtà la collaborazione maggiore con Roberto ora è questa: molto concreta e tecnica, ma altrettanto importante.
Che rapporto hai coi tuoi “maestri”?
Nel mio percorso ci sono stati diversi incontri e persone che sono o sono stati punti di riferimento, e non per forza nell’ambito della danza. La figura di mio padre, ad esempio, è una figura di riferimento, rispetto a un sacco di questioni che vengono fuori anche nell’ambito creativo. Sicuramente i due maestri in ambito di teatro, di spettacolo, di danza, sono Roberto Castello e Raffaella Giordano. Li ho incontrati nel mio percorso di allieva prima e di interprete poi; sono due mondi diversissimi, che hanno anche punti di congiunzione che si scoprono con molta calma, e vedo chiaramente che in scena, nel mio lavoro, si possono cogliere le due matrici. Anzi, a volte mi dico: non sembrerà che io stia troppo copiando, imitando? Io non lo faccio espressamente, ma è chiaro che sono stata nutrita da quegli incontri e devo dire che sono incontri che quando mi ci sono trovata, da allieva, ho scelto di mantenere. Ho incontrato tante altre persone ma non è scattata quella necessità, quella chiarezza di voler condividere. Con loro è scattata perché ho riconosciuto delle cose che già in sordina mi appartenevano, e a cui loro – più grandi e con più esperienza – avevano dato voce, la loro voce, e che sicuramente mi ha influenzata. Ho riconosciuto una familiarità nell’uno e nell’altra per aspetti diversi. Delle cose di Raffaella me le porto dietro come un nutrimento di base del lavoro. In scena penso che, per certi aspetti, Raffaella rabbrividirebbe se vedesse i miei lavori, anche se io spero di aver mantenuto una purezza che deriva dal suo lavoro, una verità dello stare.
Attualmente è più presente l’influenza di Castello. La vedo molto e a volte me ne spavento, però penso – ma questo dovrebbe dirlo un altro – che sia anche traslata su un piano differente. Ci sono cose che Roberto mai farebbe e che invece io, anche come interprete di Roberto, tendevo d’istinto a voler toccare; adesso, che sono interprete di me, le posso fare.
Tu hai avuto anche esperienze come docente (Dams di Torino e Università Statale di Milano) e hai pubblicato nel 2007 il volume, edito da Utet, “La danza d’autore. Vent’anni di danza contemporanea in Italia” . Come hai conciliato le due esperienze, quella creativa e quella di insegnante?
Non lo so, infatti non sono riuscita a conciliarle a lungo, nel senso che di fatto possono essere viste come un’unica cosa, soprattutto dal momento che quella dell’insegnamento, per come la prendevo io, che non sono un’insegnante, non era scissa dalla pratica della danza. Non ho un approccio accademico, non perché sia contro, ma perché d’istinto non ce l’ho. Quella a Milano è stata un’esperienza di quattro anni: ogni anno avevo il mio corso di 40 ore di teoria più 20 di pratica; invece a Torino qualche collaborazione più sporadica, poi alcuni master.
In quelle esperienze ho capito che la cosa più utile che potevo fare per i ragazzi era portare la mia esperienza di danzatrice, piuttosto che cercare di fare la parte della professoressa nel modo che credevo gli altri si aspettassero da me. Era invece più interessante quando portavo i ragazzi a teatro: si discuteva assieme e io avevo un ruolo di filtro dall’esperienza concreta della scena. Mi è servita molto come esperienza perché ha fatto sì che mi ponessi delle nuove domande e che affrontassi da nuove prospettive questioni che già mi ero posta, valutando da un punto di vista diverso cose che mi apparivano scontate. Quindi è stato molto interessante e formativo, e dico che per questo è stato anche un tutt’uno: toccavo problematiche che affrontavo anche in ambito creativo e che ero costretta a verbalizzare, quindi in un certo senso a ridiscutere e approfondire. Quello che non era un tutt’uno erano i ritmi, i tempi, le richieste di energie da spendere dalle due parti, e ho dovuto scegliere, anche se la scelta era già fatta a monte, perché io non sono una docente, voglio stare sulla scena, nel campo del lavoro pratico, trasmettendo e continuando a imparare. L’aspetto che più mi pesava era quello della scrittura, perché ciò che è bello dello spettacolo dal vivo è che è in un continuo divenire, mentre lo scritto sentivo che restava lì, cristallizzato sulla pagina. Per la stesura occorre chiudere un pensiero, perché a un certo punto vai in stampa, e questo non mi piaceva. L’unico testo che è uscito infatti non mi pare un granché: non mi aveva soddisfatta allora, né ora nel ricordo; è un testo molto da allieva, con l’unico pregio, forse, che in quel momento ha sistematizzato un periodo storico per l’Italia, ma ha uno sguardo forse troppo soggettivo.
Lavori molto anche in Europa. Come reputi quella situazione teatrale rispetto alla nostra?
Io conosco bene la situazione francese, perché da tre anni la frequento con assiduità. Ciò che mi colpisce in Francia è il fatto che hanno sempre le sale piene. C’è un gran lavoro fatto sul territorio e davvero esiste una cultura di spettacolo, anche se loro si lamentano ma, rispetto a noi, sono anni luce più avanti.
In Italia osservo che il pubblico siamo noi stessi, mentre sono pochi i non addetti ai lavori. Ce ne sono alcuni, e ringrazio quando ce ne sono e mi stupisco. Ma il pubblico in gran parte siamo noi addetti – più o meno dilettanti, più o meno professionisti – e per me questo è un dramma, è una grande tristezza.
Imputo la colpa a una serie di concause di cui potremmo discutere, e se le individuassi tutte proporrei anche maggiori soluzioni, mentre non ne ho di così certe, purtroppo: credo sia una questione molto complessa e che richiede lungo tempo e dedizione di tanti per trovare soluzione.
In Francia vedo un lavoro concreto nell’andare verso le persone in tutti i modi, e ogni volta che faccio una data ho almeno un laboratorio, una conferenza o vari incontri.
Il senso del nostro lavoro dovrebbe stare nell’offrire nutrimento: non è cibo per il ventre, ma dovrebbe servire almeno un po’ a nutrire l’anima, anche nel suo piccolo, nella sua semplicità, e quindi dovrebbe incontrare i cittadini, la collettività, altrimenti davvero non ha senso che siano i cittadini, con le loro tasse, a sostenere la cultura. In Italia questa ricaduta sulla collettività si coglie poco. In Francia maggiormente. Conosco di meno altri paesi, perché ho permanenze troppo brevi, anche se, a parte la Spagna, ho l’impressione che siano tutte situazioni migliori delle nostre.
C’è da ricordare che la grande passione che vedo in Francia negli organizzatori è supportata anche da uno stipendio dignitoso. Anche da noi la passione c’è, ce l’hai a 20, 25, 30, 35 anni; poi fai figli e la passione ce l’avresti ancora, ma devi mantenere una famiglia, e questo è un problema concreto. Però mi rammarico, perché credo che in Italia nel tempo ci si sia un po’ seduti su questa questione, e questo è un grave errore. Tutti sono responsabili: organizzatori, direttori artistici, attori, registi, coreografi, perché è fondamentale fare un lavoro che sia onesto rispetto ai tuoi approcci, senza mediare sul gusto comune, ma è sempre importante ricordarsi che tu stai convocando a vederti degli sguardi che sono altri, esterni, che non vuol dire accondiscendere al loro gusto, però sapere che ci sono e che si sta condividendo un’esperienza. D’altra parte va benissimo anche una sorta di laboratorio continuo che si fa per amici, colleghi e per se stessi, ma occorre riconoscere quest’aspetto. In parte, secondo me, anche l’autoreferenzialità ha prodotto questa situazione di scollamento tra società e spettacolo.
Sei qua ad Armunia anche per un laboratorio che riguarda un nuovo progetto.
Il nuovo progetto vedrà in scena me, Matteo Ceccarelli e altri due danzatori. Non so molto di più, perché non parto da una tematica, e i lavori sono tappe di un percorso che sto portando avanti. Quindi anche qui ci sarà qualcosa che deriva da precedenti spettacoli. Rispetto a “Passo” vedo dei punti in comune sull’indagine tra realtà e finzione, tra verità nell’atto di rappresentazione e verità di colui che lo agisce. Vorrei capire come lavorarla più nel contenuto. Non ho un tema preciso, so che lavoro sull’umano, che vuol dire tutto e niente. L’intento è quello di portare dei ritratti di umanità. In questo nuovo lavoro ho una chiarezza rispetto al tempo, vorrei cioè che fosse un lavoro con un ritmo staccato e abbastanza rapido, con repentini e continui cambi di spazio; uno spazio che si modifica tramite il concreto spostamento da parte degli interpreti di pannelli mobili e delle luci che saranno presenti in scena, in una continua creazione di set differenti, in cui hanno luogo delle azioni, delle scene, delle danze. Mi interessa che questa stessa concretezza che si trova nell’azione funzionale dello spostamento di oggetti possa essere anche nel corpo danzante, quindi come un gesto non finalizzato alla realizzazione di un’azione concreta possa essere comunque concreto e non puramente ornamentale. Di fatto credo sia un’utopia, ma è una direzione che trovo interessante, rispetto all’uso del corpo. Poi, dall’altra parte, questo cambiare di scena è anche un cambiare di stato. Vorrei passare repentinamente da uno stato A ad uno stato Y, Z, e capire come è possibile veramente essere pienamente in A e un secondo dopo pienamente in Z, e poi come valutare di poter gestire eventualmente che si arriva in Z avendo abbandonato A dal punto di vista della finzione, ma il vero noi, la persona ha lavorato in A ne è ancora intriso e si trova a dover lavorare in Z. C’è anche una questione legata al suono, perché questo spostamento produrrà un suono che vorrei potesse lentamente mostrarsi e divenire un po’ la colonna sonora del pezzo.
Da chi è prodotto?
Il progetto è sostenuto da 10 centri coreografici francesi che si chiamano CDC (Centre de Développement Chorégraphique), centri di sviluppo coreografico che ogni anno sostengono un progetto con una piccola somma ciascuno, di 3000 euro, che messe insieme fanno una buona somma. Poi ho altri produttori che mi supportano, e mettendo insieme tutte queste risorse ho la base per poter lavorare bene, tranquillamente, con tutti sempre pagati, cosa che per me è fondamentale e che dovrebbe essere la norma, ma che in Italia non sempre capita perché non sempre può capitare. Sono molto fortunata perché posso permettermi questo.
Siamo quattro in scena più un’assistente, che è Elisa Ferrari, presente anche in “Passo” come co-creatrice, poi un musicista-compositore, che collaborerà agli aspetti sonori e che si chiama Igor Sciavolino, infine Fausto Bonvini alle luci.