Klp li ha incontrati al rientro da un viaggio in Birmania con numerose novità.
A fine novembre avete presentato quattro fra i vostri recenti video e una performance all’International Multimedia Art Festival di Yangon, ex capitale della Birmania. Come siete entrati in contatto con questa realtà così esotica?
Essenziale, nel nostro percorso artistico quindi umano, è il desiderio di scoperta; affascinati dalle bellezze e dalle contraddizioni di un Paese così poco esplorato, abbiamo deciso di informarci tramite la rete circa l’esistenza di centri di arte contemporanea, e siamo così venuti a conoscenza del New Zero Art Space, che ci è sembrato esprimere, attraverso le proprie attività, una volontà di apertura nei confronti dell’occidente e del resto del mondo. Siamo entrati in contatto con loro qualche anno fa, attraverso una proposta di residenza che, per via di problemi burocratici relativi ai visti, non andò a buon fine. Poi, qualche mese or sono, il direttore artistico Aye Ko ci ha ricontattati per invitarci a partecipare attivamente alla prima edizione del festival IMMAF: naturalmente abbiamo deciso con entusiasmo di partire!
Come hanno reagito gli spettatori e gli addetti ai lavori alle vostre opere?
Il pubblico del festival ha reagito con molta partecipazione; raccogliendo impressioni su ciò che avevamo proposto, alcuni hanno definito le nostre opere dotate di un carattere straniante, originale e fresco. Molto apprezzato è stato anche il puntuale lavoro sul corpo, che ci dicono abbia regalato, travalicando le differenze culturali, momenti intensi dal punto di vista emotivo.
Tra gli obiettivi del simposio a cui avete partecipato c’è la volontà di diffondere l’arte birmana oltre i confini nazionali per accrescerne la qualità artistica attraverso lo scambio e il contatto con artisti internazionali. A che punto sono gli artisti birmani? Cosa si muove a livello artistico in questa affascinante nazione dell’Indocina?
Sicuramente è emerso ai nostri occhi che il linguaggio della performance è molto amato dai giovani artisti birmani, che lo utilizzano come un mezzo catartico attraverso il quale esprimere tutta la propria rabbia. Ciò che abbiamo notato nei lavori visionati è la mancanza di una ricerca formale riguardante l’atto performativo che permetta di veicolare le sensazioni espresse con maggiore efficacia. Fra chi pratica questa disciplina sono diffuse una spiccata tendenza all’autolesionismo e la voglia di coinvolgere attivamente il pubblico.
La Birmania è da tempo teatro di fermenti politici notevoli, come la “Rivoluzione Zafferano” dei monaci buddhisti, e non solo, movimenti che hanno portato alla fine del 2010 alla liberazione del premio Nobel e leader dell’opposizione Aung San Suu Kyi dopo anni di arresti domiciliari. Che atmosfera si respira al momento? L’espressione artistica è ancora osteggiata?
Certamente la liberazione di molti prigionieri politici (come Aung San Suu Kyi, che da qualche mese ha addirittura conquistato un seggio in parlamento), così come le prime elezioni politiche da tempo immemore tenutesi nel 2012 e la cauta apertura del Paese al turismo sono segnali confortanti.
Lo scollamento pressoché totale fra il popolo e la politica, un misto di paura, sfiducia e disinteresse è però il frutto marcio della dittatura, che continua di fatto a detenere il potere attuando una mutazione del proprio modus operandi, che passa adesso attraverso forme di controllo e repressione più tecnologiche (web, reti telefoniche).
Il festival a cui abbiamo partecipato ha avuto luogo nel contesto protetto dell’Istituto di Cultura Francese, centro attivo ed aperto alla popolazione con iniziative gratuite. Abbiamo intuito che, in genere, è necessario prestare molta attenzione a ciò di cui si parla e, ovviamente, a come lo si dice; per questa ragione lo spazio per l’arte sperimentale è in genere molto ridotto.
Eccezion fatta per le questioni politiche, l’atmosfera nel Paese ci è sembrata molto vivace: accanto a feste e manifestazioni artistiche tradizionali abbiamo incontrato molta passione per la musica (in vari luoghi visitati numerosi erano i giovani che cantavano, chitarra alla mano, propri componimenti o canzoni dei loro idoli) e ci sono numerose gallerie d’arte locale in luoghi inusuali, uno su tutti sulla spiaggia di Ngapali.
Tutte le vostre opere hanno come oggetto il corpo femminile: svestito, addobbato, mascherato, senza volto. Cosa vi ha più colpito nella donna birmana?
L’eleganza, la tempra e la determinazione, mantenute fra le difficoltà del vivere quotidiano.
Come accade spesso nei vostri percorsi (come ad esempio durante la trasferta newyorchese di qualche anno fa) il viaggio diventa punto di partenza per un nuovo progetto artistico: dopo il festival di Yangon siete partiti alla scoperta dei paesaggi birmani con lo scopo di girare un video e realizzare una serie di fotografie. Ci sono nuovi progetti in vista? Potete darci qualche anticipazione?
Abbiamo girato un video ispirati dall’atmosfera contraddittoria che si respira presso l’affascinante lago Inle, soprattutto in relazione all’elemento dell’acqua, fonte di vita sotto molti aspetti in quel luogo.
Sul versante fotografico è stato realizzato un nuovo scatto che va a proseguire il progetto Faceless ed ha preso corpo una serie fotografica illuminata esclusivamente dalla luna piena, in cui tentiamo di dar voce alle nostre sensazioni su quanto di alieno e tribale abbiamo incontrato.
Due domande più generali: da sempre vi muovete tra performance, video e fotografia. Come riuscite a far coesistere queste diverse discipline artistiche? Come proponete questo “ibrido” ai festival nazionali e internazionali?
Ognuno dei linguaggi citati ha delle specificità che lo rendono più adatto a esprimere alcuni aspetti della nostra visione del reale. Sono proprio i limiti di ciascuna disciplina che ci consentono di esprimere la complessità dell’esistente: lavorando su di essi, o meglio, sulla relazione tra di essi, tentiamo di ridefinire quelli che per noi sono i confini di questi linguaggi, che cosa noi possiamo dire attraverso di essi, quale gamma di nostre sensazioni riusciamo a restituire al pubblico. La transmedialità, per noi, è un tentativo di dar forma all’ambiguità del reale.
La maniera di proporci in Italia e all’estero dipende molto da ciò che ci piace mostrare in quel momento e da ciò che ogni singolo festival richiede. I nostri progetti che coinvolgono più linguaggi sono in genere composti da opere fruibili anche singolarmente; così capita che, per ragioni di varia natura, si partecipi ad un festival presentando solamente opere video, o performance, come anche un intero progetto transmediale. Fino ad ora il nostro lavoro, forse anche per via della sperimentazione che abbiamo intrapreso, ha trovato maggior riscontro fuori dall’Italia.
Nei vostri progetti passati avete sperimentato la fotografia anche attraverso uno smart phone. Le recenti rivoluzioni tecnologiche e mediatiche (penso ai device, ai social media e non solo) hanno influenzato in qualche modo il vostro linguaggio artistico?
Abbiamo iniziato a sperimentare in maniera più decisa la contaminazione con la rete in uno dei nostri ultimi lavori, l’installazione performativa “Animalità Residua”. Vera si trovava all’interno di un parallelepipedo bianco: mentre la performance dal vivo era giocata sulla fuoriuscita di un braccio dall’unico, piccolo buco nella struttura, una webcam permetteva al pubblico di osservare in tempo reale sul proprio smartphone o tablet quanto accadeva all’interno, connettendosi tramite un codice QR fornito prima dell’inizio della performance. La risposta degli spettatori del M.A.C.Ro. è stata molto incoraggiante, una volta superata la sorpresa iniziale, proprio in virtù del nuovo livello di interattività che introduce nella fruizione, lasciando libertà al pubblico stesso circa modalità e tempi di questo secondo sguardo.