“Il servitore di due padroni” di Antonio Latella passa al Teatro della Tosse di Genova prima di arrivare a Torino (in scena fino al 16 marzo). E fa sobbalzare tutti dalle poltrone.
Qualcuno non regge i continui scossoni e abbandona la sala nel timore che il terremoto lo travolga, altri si aggrappano ai braccioli e vogliono restare lì ad ogni costo: ne vale davvero la pena.
Lo spettacolo è un big bang, una bomba atomica collocata sotto il palco dell’Arlecchino goldoniano non per distruggerlo ma per sezionarlo ed analizzarlo minuziosamente.
“Per riuscire ad apprezzare e onorare le nostre tradizioni dobbiamo, di tanto in tanto, vuotare le nostre menti e liberare la memoria da tante sovrastrutture e cliché che il tempo ha sedimentato nei nostri ricordi” scrive Ken Ponzio, drammaturgo dello spettacolo, nel libretto di sala, una sintesi esatta delle intenzioni riuscite con cui la compagnia ha affrontato il lavoro.
Il toro viene preso per le corna insomma, è non è un “toro qualsiasi” ma un pilastro della storia del nostro teatro. A ciascuna maschera la completa riscrittura drammaturgica lascia solo qualche battuta del testo originale, mentre il forte carattere di ciascuno viene accentuato da intelligenti intuizioni già ad iniziare dalla lingua; tutti si esprimono in italiano tranne Pantalone che, da buon conservatore, mantiene il veneziano. Ai “torinesi” viene attribuita una cadenza francese e Arlecchino si esprime in un modo tutto suo, un grammelot che fonde il lombardo al veneto all’italiano.
“Per me quando si parla di menzogna si parla di teatro” scrive Latella, un percorso di ricerca scenica iniziato con la figura di Hitler in “Die Wohlgesinnten”, proseguito con Peer Gynt e approdato quindi al Servitore che, smascherato, si riappropria della sua dimensione di Re degli Inferi, non più sottoposto di Beatrice ma suo fratello (Federigo Rasponi nell’originale goldoniano), in una continua finzione e allusione sessuale carica di incesto.
Lo spettacolo inizia a sipario chiuso. Gli attori entrano quindi “in battuta” proprio come nella più tradizionale e conosciuta delle rappresentazioni. Qualcosa sa di bruciato, si avverte un non so che di stantio nella riproduzione di un corridoio di un albergo demodé qualunque; ai lati le porte chiuse delle camere, sul fondo la porta d’acciaio dell’ascensore. A fianco il televisore, sintonizzato sulla CNN, diffonde notizie di cronaca contemporanea, mentre la moquette viene pulita da una cameriera con l’aspirapolvere.
Venezia e la casa di Pantalone trovano nuova e originale collocazione in questo spazio dove il gestore, un Brighella in frac, comunica le note di scena per mezzo di un interfono appeso ad una parete.
Anche i costumi, elemento significante della maschera, subiscono il big bang latelliano già a partire da Arlecchino, che indossa un costume totalmente bianco, un foglio su cui tutti gli altri personaggi possono intervenire. Nessuno ha la maschera in volto, gli attori portano abiti anni ’50, costumi settecenteschi oppure vestiti alla moda (come nel caso di Florindo che viene presentato come icona della pornografia del pop), ciò che interessa sottolineare è la relazione che intercorre tra personaggio e attore.
La rappresentazione procede in modo lineare, ma l’odore di bruciato si fa sempre più forte rispettando una regola che fa parte, da sempre, del teatro di Latella. L’iperrealismo esagerato sconfina e travolge gli interpreti, i personaggi e le relazioni di menzogna e finzione esasperata.
Un terremoto emotivo che sconvolge tutto, fino a portare gli attori a smontare completamente l’intera scenografia che compone l’albergo e svelando il dietro le quinte, la falsità, la convenzione.
Tutto si sgretola e diventa verità, tutto è drammaturgia e ha un significato fondamentale, dalle sonorità vertiginose di Franco Visioli, alla scelta di battute televisive e ripetute di Ken Ponzio.
Antonio Latella costruisce una regia passo passo, con attori eccellenti (Fracassi, Speziani, Latini, Tedesco…) e compiendo la sua “rivoluzione” attraverso un completo e cosciente sgretolamento dei personaggi.
Quello che resta è la grandezza di un lavoro corale (di cui Latella ci aveva parlato anche in questa intervista) in cui Arlecchino è semplicemente il pretesto per parlare del teatro, “delle sue possibilità, del rapporto con la tradizione e portare alla luce quei segni, quelle voci, in una parola quella memoria, che la tradizione ha intrappolato per secoli e che, per me, è all’origine del teatro contemporaneo”.
Il servitore di due padroni
da Carlo Goldoni
drammaturgia: Ken Ponzio
regia: Antonio Latella
suono: Franco Visioli
assistente alla regia: Brunella Giolivo
scene e costumi: Annelisa Zaccheria
luci: Robert John Resteghini
con: Marco Cacciola, Federica Fracassi, Giovanni Franzoni, Roberto Latini, Annibale Pavone, Lucia Perasa Rios, Massimiliano Speziani, Rosario Tedesco, Elisabetta Valgoi
produzione: Emilia Romagna Teatro Fondazione, Teatro Stabile del Veneto, Fondazione Teatro Metastasio di Prato
durata: 2h 15′
applausi del pubblico: 4′ 21”
Visto a Genova, Teatro della Tosse, il 1° marzo 2014