“Paolo Grassi… senza un pazzo come me, immodestamente un poeta dell’organizzazione…”: è questo il titolo della mostra dedicata, a cent’anni dalla nascita, a Paolo Grassi (Milano, 30 ottobre 1919 – Londra, 14 marzo 1981).
L’esposizione, inaugurata il 26 gennaio a Palazzo Reale, terminerà il 24 marzo. Curata da Fabio Francione, promossa dal Comune e dalla Fondazione Paolo Grassi, espone le tracce di un singolare meneghino d’origini pugliesi.
Grassi, una vita per il teatro, condivisa con quel genio di Giorgio Strehler. Anche lui era un genio, proprio con quel briciolo di follia. Del resto «dall’uomo al vero uomo, la strada passa per l’uomo pazzo» (Foucault).
Paolo Grassi univa estro e pragmatismo. Aveva un talento unico come organizzatore, produttore, uomo di macchina. Nascosto dietro le quinte, sapeva confezionare, meglio di chiunque altro, l’inestimabile prodotto artistico che è il teatro. Di lui ci parla la figlia Francesca, classe 1950, presidente del Comitato esecutivo della Fondazione e coordinatrice della mostra.
Francesca Grassi, ci ricordi suo padre.
Le mie prime memorie sono legate all’infanzia. Di mio padre ricordo il profumo, l’odore dei sigari, lo zabaione la mattina a colazione. Avevo quattro anni quando i miei si separarono. Conservo ancora quel dolore e quello stupore. Era strano non ritrovare a casa le sue pantofole, i suoi oggetti. Lui non mi diede spiegazioni. Ero troppo piccola. Più che i bambini, lui amava gli adulti, con i quali poteva ragionare di tutto. Il suo rapporto con mia madre rimase sereno. Andarono insieme in tribunale per la causa di separazione e ne uscirono insieme. Io mi agganciai al nonno materno come riferimento maschile. Mio padre lo frequentavo durante le vacanze estive, a Natale, a Pasqua.
Con sua madre ne parlava?
No. Fui io a chiederle esplicitamente di non parlarmene. Volevo che l’immagine di mio padre si definisse nel rapporto diretto con lui. Ho scoperto papà a poco a poco, tra i 14 e i 18 anni. Trascorrevamo le vacanze insieme in Puglia, a Martina Franca, la città da cui proveniva la sua famiglia. Il primo ceppo della famiglia, in realtà, era originario di Taranto. Si era trasferito nell’entroterra, in Valle d’Itria, a causa degli assalti dei Saraceni. Abbiamo ancora un lenzuolo che risale a quell’epoca, cioè a oltre mille anni fa.
Qualche altro aneddoto?
Quelli più belli sono legati proprio a un viaggio in Puglia, in vagone letto. Eravamo in treno con Guido Le Noci, direttore della Galleria d’Arte Apollinaire a Milano, anche lui originario di Martina. Mio padre mi ha trasmesso l’amore per la Puglia; l’amore per la terra, che andando da Bari verso il Salento diventa sempre più rossa, viscerale. Mio padre era affascinato dagli ulivi secolari con i loro tronchi contorti, i rami abbarbicati, accasciati, sofferenti fino a piegarsi. Oppure profondi e accoglienti come il ventre materno. Avevamo anche dei trulli in Valle d’Itria, che poi lui vendette. Ma la dote principale che mio padre mi ha trasmesso è il senso religioso. È paradossale, perché lui era un ateo convinto. Eppure aveva una grande attenzione per i riti, quelli della Settimana Santa o anche la sepoltura dopo un funerale. Mi affascinavano le tombe di famiglia a Martina, tutte simili, grandi come case. Poi ho ricordi teneri legati a zio Dante o a zio Beppe, ai dolci dei morti preparati da zia Teresa, conservati in una scatola di latta.
E il rapporto con Milano?
È una città che mio padre ha amato profondamente. Le ha dedicato la sua vita. Milano è la città degli incontri delle sinergie, dei luoghi aperti e comuni, indipendentemente dalla condizione sociale. A Milano ognuno può trovare il proprio spazio e la possibilità di realizzarsi.
Quest’apertura suo padre la dimostrava anche a teatro.
Credeva a un pubblico diversificato capace di crescere. Credeva nella formazione di una cultura completa realizzabile attraverso il teatro. Al dialogo con le scuole. Questo è anche lo spirito che anima la Fondazione.
Che cosa insegnate in particolare?
Che il teatro è condivisione e progettazione. Che è veicolo culturale ad ampio spettro. Che è linguaggio totale capace di coinvolgere più aspetti, dalla drammaturgia alla scena, alle luci, ai costumi. La Fondazione organizza mostre, convegni, educazione al teatro nelle scuole. Si inizia dall’imparare a stare seduti, a interagire in silenzio con gli attori. Gli studenti apprendono che partecipare a una rappresentazione da spettatori comporta un coinvolgimento paragonabile a un rito.
Come si struttura la mostra?
Svela il Paolo Grassi organizzatore culturale, un mestiere che in Italia non esisteva. Ripercorriamo le tappe della fondazione e della direzione del Piccolo Teatro, gli anni della direzione del Teatro alla Scala e della Rai, l’attenzione all’editoria. Ci sono foto, oggetti, disegni, quadri, bozzetti, documenti e ritratti, interviste televisive e un documentario curato da Rai 5. La mostra scandaglia la biografia di Grassi. C’è una sezione con libri, lettere, riviste, articoli, locandine ecc. provenienti da archivi pubblici e privati, e una sezione artistica con quadri e disegni degli artisti che conobbe. Citiamo infine i suoi incontri con personaggi illustri come Chaplin, Brecht e la regina Elisabetta. Infine, accenniamo al suo rapporto complesso con la politica. Su tutto domina il teatro, strumento universale per conoscere la realtà, la vita e l’animo umano.