
Per l’edizione 2012 del festival Claudia Sorace e Riccardo Fazi avevano inondato la sala della Cavallerizza Reale di Torino di pesanti blocchi di pietre e macerie mettendo in scena “Displace #2 Rovine”, una vera e propria scossa tellurica dal ritmo furioso e incalzante.
A ormai due anni di distanza da quello spettacolo, viene da pensare che la performance presagisse senza volerlo il destino che sarebbe toccato alle fiere e antiche mura di quello stesso spazio teatrale.
Proprio in giorni di agitazione come questi, giorni in cui la Cavallerizza si è aperta alla cittadinanza svelando lo stato di degrado e abbandono in cui versa da molto tempo, Muta Imago torna al festival con uno spettacolo molto diverso, che speriamo possa presagire questa volta un più auspicabile destino di ricostruzione e dialogo.
Per “Pictures from Gihan”, in scena alla fondazione Merz, ci sono solo i fondatori della compagnia, Claudia e Riccardo, due attrezzate postazioni internet, qualche lavagna dove appuntare le tappe di un viaggio esistenziale impossibile, e due lampade da tavolo che si accendono e si spengono ritmicamente.
Lo spettacolo è la storia di un incontro negato, quello dei due attori italiani con Gihan, giovane blogger egiziana che ha documentato senza sosta i cambiamenti epocali avvenuti nel suo Paese a partire dalla destituzione di Mubarak (febbraio 2011).
La giovane blogger non ha mai risposto alle tante lettere di Claudia e Riccardo, e non ci si può quindi non domandare cosa potrebbe pensare del fatto che la sua storia personale, così com’è inevitabilmente intrecciata agli eventi rivoluzionari di un Paese intero, siano diventati oggetto di uno spettacolo.
“Pictures from Gihan” è infatti anche un’indagine sul modo in cui si può fare storia al giorno d’oggi, su come, nonostante i mezzi di comunicazione siano più veloci che mai, possano restituire soltanto istantanee confuse e parziali. Quello che sembra di capire è tuttavia che siano proprio questi nuovi mezzi di comunicazione i soli capaci di restituire storie personali, e per questo attendibili e appassionanti come quella di Gihan. Un mondo a frammenti, ma visto e raccontato da dentro, fuori dalla freddezza dei canali ufficiali e dentro l’universo bruciante di una vita qualunque, quella di una giovane donna di piazza Tahrir.
Claudia e Riccardo cercano di ricostruire, frammento dopo frammento, l’evolversi di una rivoluzione in fieri, una rivoluzione che, a noi italiani, non può appartenere ma che stranamente può, con la sua valenza esemplare e la lente privilegiata degli occhi di Gihan, dirci qualcosa in più sul mondo in cui viviamo.
In questo spettacolo scrivere lettere non è appoggiarsi all’altro nell’attesa di una risposta, ma più efficacemente un pretesto per interrogare se stessi senza riserve. Usare l’altro come potente specchio su cui fare ribalzare le domande che più ci premono, e quindi anche per vedersi meglio, mettendo forse a fuoco, nel riflesso di noi stessi, qualche sorprendente deformazione da accettare in modo responsabile.
Capiamo quindi solo alla fine dello spettacolo perché questa storia di una rivoluzione lontana ha tanto appassionato Muta Imago: abbandonate le postazioni internet, Claudia e Riccardo guardano per la prima volta il pubblico ponendo l’unica vera domanda su cui ruota tutto lo spettacolo. Una domanda semplice ma in fondo, a pensarci bene, l’unica possibile: cosa dovranno ancora toglierci affinché si possa fare una rivoluzione?
Usciamo dalla Fondazione Merz sicuri di aver assistito a uno spettacolo importante, in cui l’emergenza di espressione ha avuto la meglio sulle preoccupazioni estetiche e più propriamente artistiche. “Pictures from Gihan” di Muta Imago è uno spettacolo in minore, una di quelle tante piccole cose preziose che non valgono tanto per la loro bellezza, ma piuttosto e più semplicemente perché sentiamo che, malgrado tutto, ci riguardano.
Quando nasce esattamente l’idea di fare di questo mancato incontro con Gihan uno spettacolo? Vi eravate avvicinati a quanto succedeva in Egitto prima di pensare a uno spettacolo o l’idea è arrivata proprio da questo mancato incontro?
Tutto è iniziato con una commissione del Teatro di Roma, che voleva un testo per un progetto legato alle Primavere arabe. Quasi due anni fa. Ci ha incuriosito approcciarci ad un fatto così diverso da quelli su cui avevamo lavorato in precedenza. Ci siamo chiesti cosa sapevamo davvero di quello che era successo dall’altra parte del Mediterraneo, e ci siamo risposti che non sapevamo proprio nulla, nonostante la stampa e tutti i media ufficiali avessero dedicato molta attenzione agli eventi. Ricordavamo le prime pagine dei giornali, i titoli, le immagini, ma era tutto molto lontano. Sapevamo che quella egiziana era stata la prima rivoluzione a essere raccontata dal basso, attraverso i social network, dalle persone che in strada postavano immagini e testi. Ma non li avevamo mai letti veramente. Così Riccardo ha pensato di raccogliere tutte le tracce che di questi racconti ancora esistevano su internet, con l’idea di ascoltarli, prima di tutto. Dalle centinaia e centinaia di tweet raccolti è nata una performance che si chiama “In Tahrir”, una sorta di radiodramma eseguito dal vivo, dove ricostruiamo la giornata di una ragazza che esce di casa per arrivare a piazza Tahrir e raggiungere il proprio compagno (la performance andrà di nuovo in scena a Padova all’interno del festival Enter questo venerdì, 20 giugno). La struttura delle azioni e dei suoni si poggia sugli avvenimenti raccontati dai tweet e l’obiettivo del lavoro è riuscire ad arrivare, almeno per un istante, ad immaginare di essere lì, dentro quella piazza, in quel luogo caotico, assordante, entusiasmante e pericoloso insieme.
In questo peregrinare per il web abbiamo incontrato Gihan Ibrahim. Una ragazza normale, molto lontana dallo stereotipo della “rivoluzionaria egiziana”. La sua presenza, i suoi modi, la sua storia, così prossimi ai nostri, hanno completamente ribaltato la questione: potevamo essere davvero noi stessi al suo posto. Abbiamo iniziato a seguire il suo blog, a leggere i suoi tweet, post, interviste, a raccogliere tutte le sue tracce disseminate in questo contenitore disordinato e senza tempo che è internet. Volevamo capire, attraverso le sue parole, cosa potesse voler dire vivere una rivoluzione, e cosa, di un evento così grande, rimaneva due anni dopo.
Abbiamo deciso di incontrarla, di andare al Cairo. Lo spettacolo avrebbe dovuto raccontare il nostro viaggio. Poi, proprio in quei giorni di fine giugno, la rivoluzione scoppia di nuovo: milioni di persone scendono di nuovo in strada per manifestare contro Morsi. L’esercito prima appoggia le manifestazioni, poi, ad agosto, inizia a usare la forza.
Vi siete chiesti come portarlo avanti, come seguire il flusso degli eventi? Oppure è un lavoro che ha trovato una forma definita, al di là degli sviluppi storici e culturali che potrebbero emergere giorno per giorno?
La grande difficoltà di questo lavoro ha riguardato il fatto che ci siamo trovati di fronte ad un materiale in continuo movimento, instabile ed ambiguo, sia nella forma che nel contenuto. La situazione egiziana, aldilà delle semplificazioni, è estremamente complessa, e molto più legata allo sviluppo in un lungo periodo che al tempo breve delle novità giornalistiche. E come si poteva far dialogare il tempo presente del teatro con quello secolare della storia? La nostra attrazione per questa vicenda era profondamente legata alla figura di Gihan, ci sembrava pericolosissimo prendere altre strade, più cronachistiche o strettamente politiche. A noi interessava il lato personale, la possibilità di guardare questa vita e attraverso di lei poterci guardare allo specchio.
E così il lavoro è stato un minuzioso farsi strada tra mille questioni, una lenta progressione che abbiamo portato avanti attaccandoci fortemente a quella incredibile sensazione di vicinanza, di prossimità con un essere umano che non conoscevamo affatto, ma che ci aveva guardato negli occhi e ci stava offrendo un altro punto di vista sul nostro di mondo. La politica a questo punto è un risultato, non un punto di partenza.
Gihan ci ha costretto a guardarla non come un oggetto, ma come un soggetto. E ci ha costretto a guardare noi stessi allo stesso modo. Per tutta l’estate abbiamo collezionato le sue tracce e le nostre: dove eravamo noi, mentre lei manifestava, cosa stavamo facendo, mentre si chiudeva in casa, di cosa parlavamo mentre lei si chiedeva se la sua rivoluzione potesse ancora avere un senso.
La versione che avete portato in scena al Festival delle Colline in che modo si differenzia dalle versioni precedenti?
Grazie alla collaborazione con il Romaeuropa festival abbiamo portato avanti il progetto e abbiamo debuttato a ottobre 2013. Sicuramente ora lo spettacolo è molto diverso, prima di tutto perché è passato del tempo, e i fatti a cui ci riferiamo, depositandosi, si sono resi più assoluti e meno contingenti. Il tempo ha cancellato le questioni cronachistiche e fatto emergere quelle assolute. Questo ha spostato il nostro pensiero riguardo a un eventuale sviluppo del progetto. Inizialmente volevamo mantenere una forma aperta, in continuo sviluppo; oggi, questa necessità ha lasciato spazio a una forma e a un racconto chiusi, perché effettivamente conclusi: quelli dell’estate 2013.
C’è, nello spettacolo, un tentativo autobiografico molto prezioso. Autobiografico non nel senso di auto-narrazione del sé (mi pare siate riusciti molto bene a non cadere in questa trappola) ma autobiografico in un senso più autentico e sincero: dove non conta la veridicità dei singoli fatti raccontati (in questo senso è stato svolto un ampio lavoro di re-invenzione e montaggio) ma il modo in cui questi entrano in relazione con una vita altra, desiderata prima e immaginata poi.
Credo che la storia di Gihan ci appassioni proprio perché è vista dai vostri occhi e raccontata dalle vostre voci. In un mondo in cui siamo bombardati di notiziari e informazioni autorevoli, la vostra piccola storia, proprio perché è raccontata da voi, ci tocca in modo più diretto. Da spettatrice ho sentito un sentimento di prossimità, di vicinanza nei vostri confronti.
Sì, il tentativo è stato proprio questo, e sono contenta che sia stato colto. Siamo voluti partire da noi perché ci sembrava il modo più onesto per raccontare questa storia. In questo senso siamo voluti partire da quello che c’era di più piccolo, vicino e personale, per avvicinarci a piccoli passi a qualcosa che altrimenti sarebbe stato (e forse rimane) inarrivabile. All’interno della questione su cos’è una rivoluzione forse un punto molto importante riguarda la rivoluzione del punto di vista. La nostra proposta è quella di provare a guardare le cose da una prossimità, mettendo noi stessi dentro quello che guardiamo. Non per esibizionismo o per egocentrismo, al contrario, proprio per fare un esercizio di empatia. Per mettersi in ascolto e per mettersi in causa. E dunque in crisi.
Non abbiamo scelto subito di essere in scena io e Riccardo, anzi. Solo ad un certo punto abbiamo capito che non si poteva fare soltanto fiction di questa storia, ma che doveva esserci un equilibrio diverso tra realtà e finzione, che tutto si poggiava su una maggiore ambiguità, come la materia che stavamo trattando. È stato difficile superare certe (sane) timidezze. Però sembrava davvero impossibile fare altrimenti.
L’obiettivo è che la nostra scelta di essere in scena porti paradossalmente a dimenticarsi di noi, per portare lo spettatore al centro del racconto. In un certo senso ci proponiamo come medium. Con uno sguardo così personale che possa scomparire, per lasciare spazio a chi guarda, in modo che questi possa trovare un percorso aperto davanti a sé, da percorrere se vuole insieme a noi.
Nel 2012 avevate portato alle Colline uno spettacolo molto diverso, “Displace #2 Rovine”. Lo spettacolo su Gihan ha a che fare in qualche modo con un percorso già iniziato? Credo ci siano aspetti in comune, e la cosa che più ha colpito in entrambi è l’importanza del “ritmo”.
I nostri lavori sono molto legati gli uni agli altri. A volte anche semplicemente per reazione. “Displace” era un lavoro corale, che parlava di distruzione e spossamento, ma che finiva con la speranza di un viaggio. Era ispirato alle Troiane di Euripide, donne che avevano perso una guerra e che si trovavano sospese tra un futuro incerto e un passato di rovine. Gihan forse è la risposta a quella stasi, a quella disperazione. Ed è una risposta concreta.
Il ritmo è la base su cui costruire il racconto, e a sua volta dipende da cosa si va a raccontare. Il respiro di “Pictures from Gihan” si muove tra quello di Gihan, più convulso, frenetico, esaltante e il nostro, fermo, o tutt al più in falso movimento, riflessivo. “Displace” era 50 minuti di lotta continua e spossante, e se ci si fermava era solo per prendere fiato.
Ultima domanda: perché Gihan non risponde?
Forse ci ha presi per pazzi perché non le abbiamo mai chiesto tutte le cose che normalmente le chiedono i giornalisti.
Forse aspetta di incontrarci di persona.
Forse non si fida di due europei che non conosce.
Forse le nostre domande sono troppo personali.
Forse è molto riservata.
Forse voleva che continuassimo a immaginarla.