Stanno facendo merenda, e non mi permettono di rifiutare una fetta di torta meravigliosa, mentre mi parlano un po’ dei loro acciacchi.
Incontro Michela Lucenti e Maurizio Camilli di Balletto Civile in una stanzetta un po’ angusta di Teatro Due, a Parma, il loro quartier generale da cui da anni portano avanti una prolifica residenza artistica. Hanno da poco debuttato con il nuovo lavoro “Brennero Crash”, una co-produzione con il Neuköllner Oper di Berlino.
Balletto Civile è così, capisci subito che per loro fare teatro è innanzitutto condivisione, dentro e fuori dalla scena.
Sono una delle compagnie più affermate del teatro danza in Italia, anche se il loro naturale nomadismo li ha portati un po’ ovunque, ma è chiaro che il segreto del loro successo sta principalmente nel fatto che loro, a far teatro, si divertono di brutto, anche solo a parlarne.
Ci spostiamo in un posto più tranquillo, lontani dal costante ronzio del condizionatore. Sarà una lunga chiacchierata (qui divisa in due parti), ma forse mai lunga abbastanza.
Cominciamo dal vostro ultimo lavoro, “Brennero Crash”. Tutto nasce da un incidente automobilistico, un evento prettamente invalidante, che voi invece usate come pretesto per una scrittura fisica estremamente dinamica e inventiva.
Maurizio Camilli: L’idea dell’incidente è stato un espediente drammaturgico utile per avere una cosa in comune che legasse tutti i personaggi, e li costringesse a stare in un determinato posto. Dopo di che, anche il nostro tipo di danza si può prestare facilmente a declinazioni dell’idea di incidente. Siamo abituati a lavorare anche con non professionisti o disabili, e da questo punto di vista può diventare interessante capire qual è un limite per poi esplorarlo e lavorarci.
Michela Lucenti: Abbiamo usato tutta la parte metaforica che si porta dietro l’idea di incidente: l’incidente fisico, che in questo caso blocca i personaggi in un luogo, fa partire delle azioni interiori, sviluppa altre traiettorie. Questo spettacolo è nato molto anche da una commissione, dall’idea di incontrare altre persone (il Neuköllner Oper di Berlino n.d.r.), e certe volte l’incontro non è automaticamente morbido, significa anche scontrarsi, avere all’inizio una frizione.
D’altra parte c’è stato anche un invito a parlare della crisi, e per noi l’idea che un incidente forzatamente ti blocchi è un modo per dire che, attraverso la crisi, si può trovare una possibilità di azione nuova, assolutamente rinnovata.
Fino a che punto l’incidente ha influito sulle dinamiche sceniche? Ho notato che, rispetto ad altri vostri lavori, qui il flusso narrativo risulta essere un po’ zoppo in certi punti. Come se la rappresentazione a volte si incanalasse su un binario poco scorrevole. Viene quindi naturale chiedersi se non sia una precisa scelta, considerando che l’idea prende le mosse da un crash.
Michela Lucenti: Questa tua sensazione secondo me può dipendere da due cose. Da una parte si tratta di una drammaturgia complessa perché è a più mani; di solito io nella direzione sono abituata a confrontarmi solo con Maurizio, e lavorando insieme da tanti anni abbiamo trovato una nostra modalità univoca, che va verso il coinvolgere a pieno lo spettatore.
Qui non era facile, perché abbiamo lavorato con degli interpreti che non avevamo mai visto, avevamo un dramaturg tedesco, con processi creativi diversi dai nostri. In più c’era la drammaturgia di Alessandro Berti e le musiche di Mauro Montalbetti: è stata quindi un’operazione a più voci, molto complessa, anche se la direzione è stata completamente di Balletto Civile.
Si può quindi vedere o riconoscere qualcosa, in questo lavoro, che non è solo di Balletto Civile, o non precisamente lineare con la linea estetica che noi prendiamo abitualmente.
Da un’altra parte, riferendomi al lavoro con Alessandro Berti con cui collaboriamo da tantissimi anni, interrogandoci sulla scrittura dello spettacolo, per noi era molto importante andare a singhiozzo. Non che la drammaturgia volesse essere a tratti volutamente confusa, però sicuramente c’era una volontà da parte nostra di lavorare sui refusi, come quando ti succede qualcosa ma non ti ricordi perfettamente cosa, e tutto ti risulta un po’ spaccato.
Da una parte c’è quindi la volontà di fare un tipo di lavoro, dall’altra la fatica di creare un’operazione univoca costruendola con tante mani.
Maurizio Camilli: C’è anche il fatto che questa commissione prevedeva requisiti musicali di un certo tipo: abbiamo lavorato con musicisti, non con danzatori; e ad alcuni di loro abbiamo forse chiesto un po’ troppo dal punto di vista fisico.
A Berlino le reazioni del pubblico sono state molto diverse rispetto a quello italiano. Ridevano moltissimo a certe battute, anche in italiano, che qui in Italia invece sono rimaste ignorate. Dopo la prima a Teatro Due abbiamo deciso per le altre repliche di aggiungere i sottotitoli [in Brennero Crash sono presenti performer di lingua tedesca n.d.r.], perché ci siamo accorti che c’era il rischio che il pubblico potesse perdere alcune parti o ritenerle superflue.
Rimanendo in tema di drammaturgia, siete soliti affermare che per voi le parole non bastano. Non bastano o non vi servono?
Maurizio Camilli: Secondo me non servono…
Michela Lucenti: Diciamo così, buona parte del nostro lavoro, che sta su questo ponte fra il teatro e la danza, crede fortissimamente che tantissima parte del messaggio avvenga attraverso i corpi, e non intendo la danza, intendo proprio la testimonianza del corpo, parlo di azioni fisiche, di presenza, di stato.
Quando scriviamo gli spettacoli lavoriamo su tantissimo materiale fisico, arriviamo alla parola quando la sentiamo veramente urgente, quando, oltre a quello che i corpi fanno, riteniamo che dire quella cosa lì, anche stupida, anche piccola, sia veramente importante.
Maurizio Camilli: Buttiamo via anche molto testo però…
Michela Lucenti: Oppure decidiamo che molte parti di testo siano ininfluenti, che sia già abbastanza quello che racconta la visione. Forse le parole, nel nostro lavoro, non servono perché non ce ne sarebbero abbastanza. Sembra un gioco di parole, però o decidi di fare veramente un grandissimo lavoro sulla parola, oppure noi crediamo che nella vita di un creatore non ci sia posto per fare duemila cose.
Studiamo una via, il nostro modo di lavorare sulla parola viene dopo il lavoro sul corpo, è importante darci una priorità. Crediamo nel dedicare un tempo alla parola che viene dopo al grande lavoro sulla testimonianza del corpo.
Intendiamoci però, nel vostro teatro non c’è solo danza, c’è anche parola, musica, e tutto il resto. È un teatro totale a tutti gli effetti.
Michela Lucenti: Sì, noi la viviamo molto come teatro. Io personalmente ho una grande formazione nell’ambito della danza, però mi sono fatta comunque la scuola di recitazione dello Stabile di Genova. Per me queste cose sono andate parallele da sempre. La metà delle persone che lavorano con noi vengono da scuole di recitazione, e a un certo punto hanno deciso di impazzire su un lavoro fisico. Per me è comunque una modalità teatrale, anche se poi io mi sento più vicina a una definizione di teatro fisico che di teatro danza. Lavorando all’estero ci stiamo accorgendo che questo è un problema che fuori dall’Italia non si pone. Da noi è come se avessimo assoluto bisogno di definire e classificare ogni cosa.
Maurizio Camilli: In qualche modo “Brennero Crash” è teatro musicale; in Germania viene da quella tradizione lì, ed è la cosa che ci è stata richiesta. Una volta ancora decliniamo il nostro linguaggio in base a quello che riteniamo essere la conformazione migliore.
Nei confronti della scrittura voi agite con un’operazione contraria ai canoni classici della drammaturgia. È il corpo che scrive le sue parole, e non il testo che si rende disponibile ai linguaggi del corpo e delle azioni fisiche.
Michela Lucenti: Sì, è anche il motivo per cui facciamo molta fatica quando facciamo delle collaborazioni. Quando cominci da un testo, magari da un grande testo, ce lo ha dimostrato il nostro lavoro su Ofelia [“L’amore segreto di Ofelia” scritto da Steven Berkoff, n.d.r.] facciamo molta fatica perché per noi la danza, o le azioni fisiche, non sono la traduzione di un testo. Leggere qualcosa e tradurla in qualcosa di fisico per noi è noioso.
È più interessante, più misterioso, partire dalle azioni fisiche e, come se facessi una scultura, cercare di togliere e vedere cosa c’è sotto, quali parole potrebbe contenere. Il testo mi limita, preferisco partire dal vuoto e andare ad indagare su cosa mi sta dicendo quella determinata azione.
— fine prima parte —