Dolore, urla, fragori scomposti. Musica ossessiva e avvolgente. Ma la malattia non è tabù: se ne può parlare. La si può rivivere guardandosi negli occhi.
“Preghiera. Un atto osceno”, della compagnia Phoebe Zeitgeist, regia di Giuseppe Isgrò, è un’odissea tra dolore e sopravvivenza. Lo spettacolo, che ha aperto al Teatro Elfo Puccini di Milano la rassegna “Contagio – Relazioni intercorse tra Milano e Palermo”, affonda lo sguardo e la parola nelle viscere di un corpo consunto. Tra luci oniriche e note da vertigine, in uno spazio claustrofobico che è gabbia fisica e mentale, Phoebe Zeitgeist racconta il tunnel e la solitudine.
Com’è essere malati di una malattia grave? Come cambia il rapporto con l’io, con gli altri, con Dio? Come si lotta? Come si vive?
In questo spettacolo scritto da Margherita Ortolani, e da lei stessa interpretato insieme a Vito Bartucca, la sofferenza è ruggito. È battito carnale, sinapsi elettronica. La parola scortica, più della malattia stessa.
Immagini evanescenti e capovolte. L’io, il morbo, la speranza. Il buio, il crepuscolo. Il filo che ci tiene in vita. La morte, che ci osserva di soppiatto.
L’arte è esorcismo. Anche quando ha forma di poesia cupa, e le atmosfere sono da tregenda. Il black-out è interrotto da un soffio che non è chiarore. Un raggio sospeso, puntiforme.
L’atmosfera è propizia all’inquietudine. L’incertezza è il più massacrante dei contagi. La razionalità è patologia. Le voci degli attori – alterate dal microfono – gridano rabbia, mai capitolazione.
“Preghiera” è un testo ritmico, dilatato. È poesia ed enciclopedia. Chi si ammala ha due possibilità: la rimozione, o l’approfondimento. La ricerca nasce dallo stupore. Dal deflagrare di una forza interiore corrosiva, analizzata e sviscerata con acribia. Chi approfondisce vuole sapere tutto del nemico da combattere. La conoscenza è antidoto alla paura. Qui c’è il dettaglio, in maniera puntigliosa. Un linguaggio scientifico-specialistico. Risate, tra l’isterico e il disperato. Imprecazione e supplica.
Formule recitate. Voci fuoricampo come imperiosi echi interiori. Giochi di parole e scioglilingua. Assistiamo all’intreccio delirante di voli e cadute: buio, tempesta, precipizio. Luce, risalita. Il ballo, i brindisi, la gioia. Il crollo. La pelliccia, i tacchi a spillo rossi. Dolore come delirio, festa come scongiuro.
La regia di Isgrò mira all’eccesso. C’è del barocco. Passione, sangue, viscere. Niente di stucchevole. Nei suoi occhi c’è un demone. Dallo stesso demone è trafitto il fratello Giovanni: le sue musiche sono lacerazione, fisica e dello spirito.
In scena Margherita Ortolani dà forma alla malattia del corpo, Vito Bartucca a quella dell’anima. Che ha il volto della fregola, compulsiva e solitaria. Una performance incisiva e febbrile. Gli attori scuotono con un rap straniante. Sono marionette bidimensionali, manichini espressionisti, meccanismi di un orologio antico.
Giovanni Isgrò distilla note come gocce di flebo, come singhiozzi e lacrime. Le luci sono quelle di una notte in corsia d’ospedale. L’uscita di scena ha abiti festosi da matrimonio, ma il colore della sposa è verde come il camice dei medici in sala operatoria. Le posture della sposa, però, sono quelle dell’Assunta di Antonello da Messina. Proiettano la speranza. Fanno sentire capiti, protetti, ascoltati. Anche nel pianto, percepiamo i sorrisi. E la determinazione, sempre più forte, di ricominciare a vivere.
PREGHIERA Atto osceno
di Margherita Ortolani
regia: Giuseppe Isgrò
dramaturg: Francesca Marianna Consonni
con Margherita Ortolani, Vito Bartucca
voci registrate: Elena Russo Arman, Julio Lope, Tito Lombardo
scena: Igor Scalise Palminteri
suono: Giovanni Isgrò
costumi: Vito Bartucca
luci: Giuseppe Isgrò
produzione: Phoebe Zeitgeist (Milano) e Teatro Garibaldi Aperto (Palermo)
ufficio Stampa: Veronica Pitea e Barbara Caldarini
durata: 1 h
applausi del pubblico: 2’ 50”
Visto a Milano, Teatro Elfo Puccini, il 7 maggio 2015