Dopo il successo di Scenario Festival 2018, evento teatrale legato all’omonimo premio dedicato all’infanzia, che si era svolto a Cattolica a giugno dello scorso anno, l’associazione Scenario ha voluto bissare il promettente risultato di quella kermesse. Ha così proposto a Bologna, dall’1 al 6 luglio, la seconda edizione del festival in occasione della nuova finale del premio, quello classico, che ha visto la nuova declinazione della sezione Ustica, ora denominata Periferie, dedicata alle urgenze sociali e civili. Il festival si è svolto alla Manifatture delle arti, il Dams Lab, luogo che si è dimostrato ospitale e assai consono alla manifestazione.
Insieme alla presentazione e alla premiazione dei 12 progetti finalisti, sono stati affiancati spettacoli, film e laboratori di artisti che hanno fatto la storia di questo glorioso premio: da Davide Enia a Emma Dante (di cui è stato programmato il film “Via Castellana Bandera”) agli Anagoor. Della partita sono stati anche i Fratelli Dalla Via, Chiara Bersani, Liv Ferracchiati e Babilonia Teatri con il loro classico e, “purtroppo” intramontabile nei contenuti, “Made in Italy”.
La giuria del premio più importante del teatro emergente italiano, questa volta era composta da Marta Cuscunà, già vincitrice di Scenario per Ustica, Gianluca Balestra, Elena Di Gioia e, in rappresentanza dell’associazione, che racchiude in sé una quarantina di entità teatrali sparse per tutto il territorio italiano, Stefano Cipiciani e Cristina Valenti.
Come è sempre avvenuto, nel bene e nel male, i progetti finalisti di Scenario sono e sono sempre stati non solo lo specchio delle forme teatrali, degli stili e dell’immaginario teatrale con cui si nutrono le nuove generazioni di artisti, ma anche e soprattutto delle urgenze sociali che lo contraddistinguono. Il fatto poi che, dei 12 progetti presentati, scelti dalle apposite giurie nelle tappe precedenti, ben sette facciano parte della sezione Periferie, cioè di un teatro che esprime direttamente in forma teatrale queste urgenze, la dice lunga sui tempi che stiamo vivendo e sulle sue potenti contraddizioni, e di come questo teatro se ne faccia carico.
Ecco dunque “Calcinacci” di Usine Baug Teatre, che affronta, attraverso diversi linguaggi, alcune delle domande oggi più necessarie e frequenti: che cos’è oggi la frontiera? Quali sono le esistenze che le vogliono attraversare e perché lo vogliono fare sottoponendosi ad indicibili ‘avventure’?
Di converso i Bolognaprocess di Agropoli, in “Anticorpi”, mettendo in scena tre attori che parlano e cantano in tre lingue diverse (italiano, francese e greco) conducono, attraverso immagini e interviste, una ricerca sul rapporto tra i giovani e le estreme destre in Europa.
Alessandro Gallo di Caracò Teatro ne “L’inganno” ci parla invece di mafia partendo dal suo vissuto, e cercando di entrare nelle viscere della sua Napoli, città che si scontra quotidianamente contro una realtà sempre pervasa da sfumature mafiose.
Anche Emilia Verginelli in “Io sono nessuno” racconta in prima persona al pubblico la sua esperienza come volontaria teatrale all’interno di una casa-famiglia, anche attraverso il suo rapporto con alcuni dei ragazzi che la abitano. Qui l’urgenza del dire fa in modo che il teatro spesso latiti, o si presenti sotto altre forme: l’invettiva, la confessione, l’esposizione documentarista.
Non accade così in “Sammarzano” dei barlettani I Nuovi Scalzi o in “Sound Sbagliato” dei napoletani Le Scimmie.
“Sammarzano”, come si evince dal titolo, parlando di sfruttamento, porta in scena il “Gran Ghetto”, la più grande baraccopoli d’Italia, che ospita più di tremila immigrati reclutati per la raccolta di pomodori, vista con gli occhi di Dino, lo scemo del villaggio.
Sono momenti di teatro, brandelli di vita, che l’occhio di Dino – nella sua follia – è capace di penetrare acutamente. Da notare qui anche l’uso delle maschere, che trasforma i bianchi in neri in modo significante.
Si noti a tal proposito, come il teatro di figura sia stato praticamente assente nei 12 progetti, come pure la danza e le performing arts.
“Sound sbagliato” ci immerge invece in una Napoli in cui cinque adolescenti passano la loro noiosa giornata sempre uguale, ipotizzando rapine sommersi dal sapore imperante della cocaina. L’azione immerge le relazioni dei ragazzi in una specie di balletto accompagnato dalle “Quattro Stagioni” di Vivaldi. Qui l’elemento che pareva il più forte e strafottente, alla fine si dimostrerà il più bisognoso di aiuto.
Il progetto più compiuto nella sezione Periferie, giustamente premiato, è “Il colloquio” del Collettivo lunAzione, sempre di Napoli, con la regia di Eduardo Di Pietro, segno anche questo di come la scena del Sud sia foriera di molti stimoli (di sei progetti ben cinque sono campani in questa edizione), per mezzo di una drammaturgia corale che urla il disagio di una terra abbandonata.
Nello spettacolo tre donne, non a caso interpretate da uomini, sono in coda, a Poggio Reale, per parlare con i propri mariti che vi sono detenuti. E’ una commedia, si ride molto ma amaramente, in un mondo dove i maschi non esistono e dove le sofferenze della vita di ogni giorno, accompagnate dal concerto per violino di Mendelssohn, si proiettano sullo spettatore.
del Collettivo Lunazione (Napoli)
Uscendo dalla sezione “Periferie” il progetto di gran lunga più affascinante, premiato non solo dalla giuria ufficiale ma anche da quella dei giovani, coordinati da Fabio Acca, e da quella degli operatori, è stata “Una vera tragedia” di Favaro/Bandini, scritto da Riccardo Favaro con in scena Alessandro Bandini, Alfonso DeVreese e Petra Valentini.
Qui appare, finalmente, il perfetto sentore di una drammaturgia classica che si mescola abilmente con la serie televisiva, con la letteratura contemporanea, con il thriller, dove ogni cosa sembra quella che poco dopo non appare più certa. E’ un gioco al massacro abilmente condotto, in cui la vera tragedia è sempre alle porte.
Viene scardinata la moda imperante di osservare tutti gli attori in proscenio a raccontare e raccontarsi, come se si avesse paura di padroneggiare interamente il palcoscenico, modalità che abbiamo incontrato anche in questa finale.
Se la scelta dei vincitori nelle due sezioni ci trova assolutamente concorde con la giuria, e pur riconoscendo che in tutti i restanti progetti fossero presenti in egual modo potenzialità interessanti da sviluppare e nel contempo fragilità, riguardo agli altri due progetti segnalati da una menzione e collocati nella Generazione Scenario (“Bob Rapsodhy” e “Mezzo chilo”) ci troviamo meno in sintonia, anche se per un giudizio più approfondito e definitivo aspetteremo lo spettacolo compiuto.
“Bob Rapsodhy” ha comunque il pregio di essere l’assolo di un’attrice che ci pare bravissima, Carolina Cametti, che già conoscevamo per altri progetti, che tutto d’un fiato spara letteralmente sul pubblico una specie di flusso di pensiero, a tratti encomiabile.
“Mezzo chilo” di Serena Guardone ha il pregio, per ora solo nell’assunto, di narrare un dolore personale (un disturbo del comportamento alimentare) per farlo diventare universale.
Interessante l’inizio di “Forte movimento d’animo con turbamento dei sensi” della romana Margherita Laterza, indagine sull’essenza dei sentimenti visti dalla parte della donna, ed è un peccato che l’arrivo del contraltare maschile la porti su canali più consueti.
Abbiamo molto gradito, di converso, “Frog” di Mind The Step, la storia della perdita dell’innocenza da parte di tre adolescenti (un ragazzo e due ragazze) durante una festa, dove in diretta streaming accade quello che non doveva accadere.
Più che raccontare il rapporto tra eros e tecnologia, il narrare e narrarsi dei quattro attori in scena è condotto con buona capacità, attraverso un linguaggio distaccato che pian piano trasforma una serata fra amici in qualcosa che segnerà indelebilmente il loro passaggio all’età adulta.
Dodici progetti, dunque, dodici grumi di pensiero di giovani artisti che vorrebbero consacrare la loro vita e il loro mestiere al teatro: ogni volta che assistiamo alla finale di Scenario rimaniamo commossi e al tempo stesso affascinati da un tale ardimento, che fa ben sperare nel futuro di quest’arte.