
Si era accennato al dopofestival (nel mio precedente intervento da Castrovillari), gustosa novità di quest’ultima edizione di “Primavera dei teatri”, rimandando a futuri resoconti. L’attacco di questo pezzo è dedicato allora all’atmosfera frivola e godereccia respirata nelle “rughe” della civita castrovillarese a giornata (s)finita. Dove, tra strade acciottolate, muri dismessi, luci soffuse dal colore ambrato di ciò che resta nelle bottiglie, si confondono chiacchiere e umori, si perde la dimensione temporale.
A due passi dal Protoconvento Francescano, location storica del festival, a ristorare spettatori e artisti ci pensano quelli de l’“Osteria di Primavera” e della “Sartoria”. L’osteria, è una vera e propria cantina di borgata, dove un odore forte di cucinato sazia l’olfatto prima di mettersi a mangiare. Pronti e serviti prodotti “casaruli”, saporiti, piccanti, tipici, e soprattutto a portata di tasca.
Girato l’angolo si ha la percezione di entrare in una dimensione altra. La “Sartoria” (una vera e propria bottega artigianale in funzione) offre ai visitatori peculiarità gastronomiche del luogo e aria da centro sociale. Carrubbe , caldarroste cotte al focolare, patate nostrane sottocenere, uva fragola, loti, vino… In un cantuccio che fa venire in mente le antiche locande di cavalieri erranti.
E degli spettacoli allestiti nella seconda giornata di festival, ci sarebbe effettivamente di che sparlare. Cominciamo concentrandoci sulla prima nazionale di “Chiusigliocchi”, produzione de La corte ospitale di Oscar de Summa, e un’altra prima nazionale “1952: a Danilo Dolci”, progetto nato dalla collaborazione fra Compagnia L’Arpa e Teatro Pubblico Incanto.
In Chiusigliocchi da sottolineare è la prova d’attore, in un allestimento dove il lavoro performativo incarna il senso più ampio di cosa si vorrebbe dire e dove si vorrebbe arrivare. Pescando nella tradizione del metateatro siciliano, il senso di surreale speculativo (anche questo tipico), e un artigianato teatrale volto all’indagine squisitamente umana, introspettiva. Quattro vite possibili (Oscar de Summa, Armando Iovino, Francesco Rotelli, Tommaso Rotella) vengono esternate attraverso una drammaturgia fresca, ritmata, moderna ma dal responso intrigante solo a tratti, cedendo il passo ad una confusionaria costruzione (registica) di scene e concetti. Un’opera in cui specchiarsi a sprazzi, grazie a dettati monologanti e dialogici orizzontali (giunti nettamente in platea) ma, di contro, in cui smarrirsi alla ricerca di compiutezza. Da digerire. Con il vago sospetto di un indirizzo, voluto, verso un pubblico “preparato”.
Il fine settimana ha consegnato agli animi degli spettatori i sussulti emozionali attesi permettendo al festival di raggiungere l’apice (questioni di climax) in quanto a gradimento o motivi di dibattito (un po’ latitanti, ad essere sinceri, per il resto della rassegna). Un festival votato ai nuovi linguaggi della scena contemporanea, puntando i riflettori sul teatro di narrazione, genere in cui è sottile il confine tra coinvolgimento e rottura, tra noia e catarsi. Lo stare sul palco per oltre un’ora, da soli, potrebbe essere poco produttivo in termini di sex appeal se non si hanno gli attributi.
Emozionante (di sensazioni diverse) non è reato dirsi dello spettacolo La merda di Cristian Ceresoli con Silvia Gallerano. Messa in scena che ha diviso pubblico e critica (anche all’interno della redazione di Klp), indice di un’opera che non è rimasta sulle tavole del palco, senza dubbio. Il bello del teatro è (anche) che non sia indirizzante al pensiero unico, che non sia qualcosa di finito da mettere sotto cornice, ma foriero di pluralità di vedute e resoconti, pur tenendo conto dei parametri oggettivi, ovviamente. Del resto l’arte è libertà. Quella libertà messa sotto contratto, nella nostra italietta, e sotto compromesso. Quella libertà altisonante esclusivamente in quanto termine. La merda è quella buttata giù ingurgitandone altrettanta da famiglia, padroni, sistema, da un andirivieni vischioso chiamato carriera, possibilità lavorative, sopravvivenza. Una messa in scena generazionale, con la Gallerano che offre la sua nudità in pasto agli occhi degli spettatori come alle mani, alla fame di carne dei protagonisti rampanti di quest’epoca (tra manager, signorine buonasera, provini, sfigati) facendosi voce di un comune malessere (dissenteria) avvertito dai “nuovi giovani” quando l’intestino incassa rospi. Facendo storcere il naso ai più esperti che non avendo l’ansietà da posto fisso (o da posto) vanno giù accusando di operazione commerciale. Fatto sta che il palco diventa megafono, luogo liberatorio, dove prendersi gioco di sé e della situazione, strizzando l’occhio a trovate di facile stupore e crogiolandosi un po’ sulle morbidezze delle comodità. Ma pescando nel vero, pescando in qualcosa di avvertito a maglie larghe. Affrontato con freschezza drammaturgica e padronanza scenica.