Rimanere o andarsene per sempre? Perdutamente Deflorian e Tagliarini

Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni
Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni
Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni (photo: Ilaria Scarpa)

Siamo in scadenza. L’angoscia cresce perché non abbiamo più un orizzonte. Siamo senza calendario. Indugiamo intorno alla soluzione finale. Temporeggiamo per paura del futuro e mancanza di presente. Un’impasse dichiarata. La necessità di un gesto e la sua perdita per strada.

Siamo all’interno di Perdutamente, titolo scelto per questa rassegna romana che supplisce ad un italianissimo temporeggiamento operativo: il ritardo nell’inizio dei lavori di ristrutturazione del Teatro India, programmati inizialmente per settembre 2012 e poi slittati (probabilmente) ad inizio 2013.
Quella che poteva risultare una perdita di tempo prezioso si è però trasformata, grazie al sostegno di Teatro di Roma, un’opportunità offerta a 18 delle più vivaci e già ri-conosciute compagnie romane, chiamate a creare in tre mesi uno spazio di ricerca e condivisione delle più diverse e perdute menti, prima privato (ottobre/novembre) e poi aperto al pubblico (dal 2 al 21 dicembre).

Una delle prime variazioni pubbliche, proposte dall’utopia di factory nata e cresciuta in questi mesi al Teatro India sul tema della perdita (sull’argomento, suggerirei di rivedere quell’attraversamento di un mondo di struggente miseria che è “Diario di un vizio” di Marco Ferreri), è “Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni”, il progetto che Daria Deflorian e Antonio Tagliarini stanno elaborando a partire da una folgorante suggestione presente tra le pagine de “L’esattore” di Petros Markaris.

L’humus fertile è quello della Grecia d’oggi, tragedia del reale, nel tempo delle cattive notizie. Quattro pensionate dal salario falcidiato si tolgono la vita con la dignità del non dar più alcun disturbo a nessuno. Facendolo in modo semplice, sistematico, deliberato.

Non lasciando alcun dubbio, quanto piuttosto assurgendo a simbolo di martiri non eroici di una congiuntura infernale cui volenti o nolenti siamo giornalieri testimoni.

In una scena totalmente sgombra – solo tre sedie nude e l’atmosfera di prove simulate – Deflorian/Tagliarini partono da un responsabile ‘non possumus’: come trovare nella pratica scenica di rappresentazione o ri-presentazione del reale un gesto analogo, o quanto meno adeguato, a quell’estremo e inappellabile grido senza ritorno?

Pur accettando la sfida di confrontarsi con l’impossibilità, sembra che non resti che metter in scena soprattutto l’inadeguatezza, il “non avercela fatta”, l’ammissione del dire di volerlo fare ma non sapere come farlo, nell’ammiccamento alla condizione meta-teatrale, il luogo fisico e mentale d’una ferita esistenziale, nella congegnata buona volontà dello svelamento del dispositivo (l’incipit di Daria Deflorian), in un afflitto ironico compiacimento della propria instabilità (si veda l’intervento di Monica Piseddu), o infine nella prossimità tragicomica con le miserie del quotidiano (Tagliarini), il tutto esibito con una convivialità affabulatoria che a tratti sfocia nel monologo interiore.

Afferrarsi a quello che non si ha, sorreggersi alle perdite, alle mancanze, perché di un baricentro stabile dell’esistenza non è più il caso nemmeno di sognarne. E aggrapparsi al contempo a chi quel gesto l’ha compiuto, chi come Jan Palach o come i monaci tibetani nel darsi fuoco hanno trovato la risposta più radicale. L’auto-immolazione simbolica che permette di ritrovarsi più forti dell’elemosinare miserie. Senza pretendere un’immediata monumentalizzazione eroica del proprio agire.

Dis-armati, senza niente, come quelli che stanno per andarsene, i tre attori restano titubanti nell’incertezza che il morire (per un’idea, ma per quale?) sia la scelta migliore. Resistere risulta di conseguenza il gesto insieme personale e politico che più ci riguarda. Tifiamo rivolta ma aspettiamo che arrivi l’eroe/martire di turno a indicarci la strada, a sacrificarsi simbolicamente per la causa. Ce ne andiamo con disperata decisione, con in tasca l’altruismo dello sconfitto “utile”, solidali o infastiditi dall’ontologia guasta dell’attore (quello che ri-calca la scena e quello che resiste nella società civile). Nell’impossibilità etica di mimare senza banalizzazione/tradimento/cadute il gesto di protesta, la messa in scena dichiara la sua resa, unica via di salvezza nei confronti dell’irruenza del reale.

Vivere è sempre più difficile, viene da pensare dopo questo meta-tentativo di capire come sarebbe meglio metter in scena il più eclatante andarsene.
In questa comunanza di stenti, è possibile dire no – oltre che, come suggerito in scena, al “sistema” che ci ha ridotti così – anche agli applausi dopo uno spettacolo (scientemente mancato) sulla crisi di futuro che divora in nostro dimissionario presente?

Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni
di e con Deflorian/Tagliarini & Monica Piseddu
durata: 40′
applausi del pubblico: 3′

Visto a Roma, Teatro India, il 5 dicembre 2012

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