Castellucci l’iconoclasta. Dialogo sugli enigmi dell’arte e della vita

Rue89 del 24 ottobre 2011 (photo: rue89.com)
Rue89 del 24 ottobre 2011 (photo: rue89.com)
Rue89 del 24 ottobre 2011 (photo: rue89.com)

Iconoclastia. E’ questo il titolo dell’incontro organizzato dalla compagnia bolognese Laminarie tra Giancarlo Gaeta, docente di Storia del Cristianesimo antico all’Università di Firenze e traduttore della nuova edizione dei Vangeli per Einaudi, e Romeo Castellucci, regista cesenate tra i fondatori della Socìetas Raffaello Sanzio.

Una settimana fa, lo studioso e l’artista hanno affrontato allo spazio Dom di Bologna la questione del rapporto fra arte e religione: un incontro “sul sentimento religioso e un senso nuovo della vita; sul come tenere insieme l’ordine dato e la sua rottura; sulla responsabilità morale degli intellettuali e degli artisti nella guerra che si combatte ogni giorno intorno a verità e menzogna; sul conflitto tra ciò che è esterno e ciò che è intimo alla propria vita; su come stare nel mondo senza appartenere al mondo”.

Inevitabile punto di partenza della discussione è stata la violenta reazione di alcuni esponenti di Civitas, gruppo di cattolici integralisti francesi, alla prima parigina dello spettacolo di Castellucci, “Sul concetto di volto del figlio di Dio”, spettacolo che il pubblico bolognese potrà vedere al Teatro di Casalecchio il 17 e 18 febbraio 2012.
I messaggi arrivati a margine del video sul canale YouTube di Klp “Sul concetto di spiritualità. Intervista a Romeo Castellucci” sono ulteriore testimonianza del clima che si è respirato in Francia.

L’accusa mossa al regista è di aver profanato il ritratto di Cristo. Indignati, alcuni esponenti del gruppo, tra cui molti giovani, si sono incatenati ai cancelli del Thèatre de la Ville di Parigi, che ha funzionato da straordinaria cassa di risonanza mediatica, per cercare di fermare la rappresentazione.
Se n’è certo parlato molto: commenti, polemiche, mobilitazioni a favore della libertà d’espressione in campo artistico.

A distanza di poco meno di un mese, appena fuori dai clamori, è quindi molto interessante sentir parlare Romeo Castellucci, che mette subito in chiaro un punto fondamentale: tralasciando l’aspetto autobiografico di quello che è successo, “poco interessante” lo definisce, è necessario guardare il quadro più grande, che è inquietante e complesso. E subito indirizza la riflessione su aspetti molto concreti.
Innanzitutto il fatto che sia successo in Francia, uno dei paesi storicamente più laici, fa riflettere. Non si può parlare dell’exploit di un gruppo di esaltati: si tratta di un movimento ben strutturato in Francia e con effetti dilaganti anche nel resto d’Europa, il cui fine è quello di recuperare un’integrità cristiana nella società civile con rimandi e simboli dal sapore medioevale. È lapidaria a tal proposito la frase con cui Castellucci definisce l’operazione messa in atto dal gruppo: “Vendono il passato ai giovani”.
Poi passa ad analizzare il rapporto fra religione ed arte, che trova una declinazione molto interessante in “Sul concetto di volto del figlio di Dio”.
La scena è iper-realistica: un salotto borghese, asettico e dominato dal bianco. Sullo sfondo, però, domina la gigantografia del Salvator Mundi di Antonello da Messina. L’immagine originale è stata tagliata: scomparse le mani benedicenti, rimane il volto del Cristo, un primissimo piano cinematografico, che è sguardo muto rivolto allo spettatore.

Un anziano padre ormai incontinente viene assistito dal figlio affettuoso; ma la situazione degenera e l’amore filiale si trasformerà in esasperazione. Un crescendo di escrementi, il disfacimento del corpo del vecchio, l’estremo farsi materia che raggiunge l’apice nella scena finale, in cui, scomparsi gli attori, l’immagine sullo sfondo si disfa, lacerata dall’interno. Sui brandelli che rimangono si intravede una scritta luminosa: “You are my shepherd” e in nero, appena leggibile ma presente, c’è anche un “not”: tu (non) sei il mio pastore.
Lo spettacolo è una caduta progressiva e angosciante: il bel Cristo muto e interrogante di Antonello da Messina viene sfregiato, diventa materia mescolata agli escrementi, quasi a voler affermare che anche questo è parte del creato, e come tale deve essere accettato.
Castellucci mette in campo anche la questione dello sguardo. Si rivolge agli spettatori che, nell’atto di guardare, sono anche oggetto dello sguardo di Gesù; ma è un guardare che non dice, si impone e mette a nudo, interrogando ognuno per il semplice fatto di esserci.
Di questo, però, si può parlare a posteriori, applicando strumenti cognitivi e d’analisi che invece, durante lo spettacolo, sono resi muti da una componente emotiva dominante: che sia fastidio, partecipazione o pena; a ciascuno la sua.
La costruzione drammaturgica non è casuale, mai lo è negli spettacoli della Socìetas Raffaello Sanzio; l’impiego dei mezzi che la compongono è sapiente perché non lascia intravedere la struttura ferrea che l’ha generata, permettendo così una fruizione immediata, empatica.
Da un’esposizione così diretta e senza vie d’uscita immediate, secondo Castellucci, si genera un cortocircuito.
Giancarlo Gaeta, da studioso, aggiunge un elemento importante per comprendere meglio la natura di questo cortocircuito. Al giorno d’oggi la figura di Gesù è oggetto di un processo di letteralizzazione. Si fanno due tipi di discorso: uno è a carattere teologico, e tende a perpetuare l’immagine tradizionale del figlio di Dio per mantenere i credenti sotto una forma di controllo socio- religioso che non mette in discussione e non s’interroga.
L’altro è invece di carattere laico, e tenta di ricostruire razionalmente la biografia di Gesù ma, secondo Gaeta, con un limite tipico di questo approccio: la descrizione dei fatti attraversa la vita di un soggetto solo superficialmente, non ne tocca la sostanzialità dell’esistenza.  Mentre lo sguardo, soprattutto nella scelta fatta da Castellucci, fissa un attimo, mette in campo la questione dell’esistenza in maniera immediata. Con la velocità e la sintesi che sono proprie alle immagini.

Da qui si è imposto uno scarto di tema che ha aperto la discussione sulla questione delle immagini oggi.
Castellucci parla di un rapporto difficile con le immagini: difficili da produrre e da leggere, quasi venissero a mancare le coordinate. Quali sono le immagini sacre oggi? Quali sono le immagini da scegliere nel torrente di quelle che ci circondano? Quali, invece, quelle consolanti, sempre che ce ne siano?
Un’immagine, per sua stessa definizione, imita, riporta in altra forma un oggetto assente.
L’immagine di Cristo riporta un corpo che non c’è più, è “un tentativo continuo e patetico di colmare un vuoto” afferma il regista.
Relazionarsi a un’immagine, sceglierla, significa toccare il vuoto, la mancanza concreta di quello che rappresenta: un tentativo fallito in partenza di colmare una distanza che, di fatto, è incolmabile. È quindi un compito enorme e angosciante.

Né le questioni trattate e tantomeno il tenore del dialogo fra i due partecipanti possono essere riportati se non parzialmente. Non si tratta neanche di arrivare a una conclusione sul tema centrale dell’incontro, che si presta a derive infinite.
Ancora una volta, come spesso accade in ambito artistico e culturale, si è trattato di un’esplorazione, di mettere in campo riflessioni sviluppate in ambiti diversi ma tangenti per molti aspetti. Non stupisce quindi che, da questo confluire di saperi differenti intorno a uno stesso tema, proprio dallo studioso, non esperto di teatro per sua ammissione, venga un’osservazione sull’arte che fa riflettere.
Forse, riflette Gaeta, sia per le immagini che per le parole la necessità più profonda è quella di ricostituire un linguaggio, ma a partire dal significato più che dalla forma. Fare arte allora può diventare un modo di generare un contatto con qualcosa di decisivo e significativo per l’esistenza, sia dell’artista che dello spettatore. Con il rischio concreto per l’artista che un simile atto comporta: rinunciare ad apparire per tentare di toccare questa dimensione che, ormai, sembra scomparsa dal nostro orizzonte percettivo.

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