Si è concluso il festival Opera Prima guidato dal Teatro del Lemming, che ha animato la città con proposte diversificate, dal teatro civile di Celestini alla danza libanese di Bassan Abou Diab
Essere belli a Opera Prima non è facile come essere belli ai festival delle Esperidi, o a Castiglioncello, Volterra, Santarcangelo o Cortona, per citare altri eventi teatrali estivi. Qua non ci sono il mare, il fascino del borgo medievale, e neppure il fresco di un panorama collinare. Fa caldo, e se le zanzare della Bassa non ci divorano, è per questo solstizio siccitoso, da inaridire il Po e l’Adige vicini. Gli strilli della «Voce di Rovigo» sono per la minaccia di razionamenti alla condotta idrica, piuttosto che per le offerte culturali.
Eppure Rovigo è bella durante il festival. Il teatro, la danza, la performance ne sono il valore aggiunto. Rovigo non sembra temere la siccità, avendo piuttosto nella memoria il ricordo dell’alluvione del 1951.
Il Teatro del Lemming, organizzatore del festival, nasce nel 1987: giusto a metà tra quell’evento infausto e questo periodo arido, soprattutto per i venti di guerra. E ci sbattiamo subito contro la guerra, appena arrivati al festival.
Ai giardini Due Torri è di scena la performance “Under the Flesh” di Bassan Abou Diab, artista libanese che ci racconta come la danza gli abbia permesso di sopravvivere alle bombe tra il 1993 e il 2006. Danzando sotto la pioggia, ma di granate.
Il percussionista Ayman Sharaf el Dine ci ferisce percuotendo con vigore il tamburo, ogni volta che Abou Diab pronuncia la parola “bomba”. È una danza singolare. E tra sorrisi, ammiccamenti e parole in arabo tradotte in un italiano stentato, scopriamo che la soluzione alle esplosioni è proprio la danza. Quella di Abou Diab è più di una metafora. È l’invito ad abbandonarsi al flusso degli eventi assecondandone l’onda d’urto. Resilienza in stile arabo. Curando le ferite con l’arte e l’umorismo. Arginando la tempesta con l’ironia. E non mancano le frecciatine all’Occidente, che si lava la coscienza regalando ai figli delle vittime giocattoli e abiti firmati.
Lo sfondo della guerra c’è anche in “Radio Clandestina” di Ascanio Celestini, monologo sull’eccidio delle Fosse Ardeatine che ci aveva sedotto oltre vent’anni fa, e che oggi risente di una mancata riverniciatura: sia perché fa riferimento a personaggi e situazioni di fine Novecento ormai anacronistici; sia perché non intercetta – magari anche solo per negarle – le affinità tra quella storia di Resistenza e rappresaglia del 1944 e la guerra russo-ucraina del 2022.
Tirando l’elastico della storia fino a slabbrarlo, Celestini nell’occasione dilata anche la durata dello spettacolo, da settanta fino a 100 minuti, senza che traspaia un arricchimento nella drammaturgia.
“Mbira” di ALDES / Roberto Castello è invece una vetrina sulle culture dell’Africa attraverso la musica, il canto e la danza. Lavoro caleidoscopico, soprattutto grazie alle musiche di Marco Zanotti (percussioni, limba) e Zam Moustapha Dembélé (kora, tamanì, voce, balafon), artista del Mali espressione di una famiglia di musicisti dal XIII secolo. Suoni che sembrano giungere da una storia arcaica.
A esaltarne l’incanto, la danza antica piena di contaminazioni di Giselda Ranieri e Ilenia Romano. Con una perplessità: si potevano ridurre i testi e dunque gli spazi per il parlato. Si rischia la lezioncina. E invece “Mbira” è uno spettacolo potente che non richiede didascalie.
Stesso discorso per “Report to an Academy” di Franz Kafka, messo in scena dai greci di Zero Point Theatre per la regia di Savvas Stroumpos. Un lavoro corale autorevole: sette performer, sulla scorta di Theodoros Terzopoulos, e suggestioni da Grotowski e Kantor a Brecht. Stroumpos sprigiona il potenziale creativo del corpo lavorando sul respiro. Il limite di questo lavoro multidisciplinare sta nei codici che si sommano e si giustappongono, anziché compenetrarsi e compensarsi. Come se ci fosse la paura di allontanarsi dal testo, di delegarne l’efficacia ai linguaggi alternativi. E anche della lingua greca, così musicale e in fondo poco ascoltata dalle nostre parti, non si sviscerano – attraverso il canto – tutte le possibilità polifoniche: ci si ferma alla monodia.
Va nella direzione opposta “Fio Azul” di Collettivo Rosario, compagnia diretta dal brasiliano Charles Raszl, in scena in piazza Garibaldi con Andrea Sampalmieri, Claudia Pellegrini, Gennaro Pantaleo, Sara Tinti, Silvia Sasso, Marta Paganelli, Simone Magnoni, Valentina Romizi. Ritmatissimo e coloratissimo esperimento di body music, che trasforma in balera uno spazio della città. Il corpo crea un canale comunicativo tra Italia, Africa e Sudamerica. Nella performance, attori e spettatori condividono i propri corpi trasformati in strumenti e creano una comunità sonora e danzante.
Ancora piazza pazza con Giselda Ranieri in “Blinde Date”. Che dimostra come la performance sia rigore, ma anche improvvisazione. Elegante e spiritosa , Ranieri improvvisa due volte;. in primis perché la sua danza è una composizione live in tempo reale con un musicista del territorio sconosciuto (nell’occasione, il batterista Iarin Munari); poi perché interagisce con il pubblico, ad esempio quando sdogana i movimenti istintivi, inconsapevoli, di un bimbo di passaggio, con le tracce di cioccolata sul mento. La danza è contagiosa: un primo bambino, poi un altro, poi due bimbe. Infine gli adulti. Alchimie urbane. Allegria di un esperimento riuscito. Alla fine la piazza balla da sola. Giselda Ranieri è spettatrice della propria creatura, semovente in autonomia.
Intercultura nel tempo e nello spazio. Buffo il “Concerto per mandolini e archi in Do maggiore di Vivaldi” curato dall’israeliano Gil Kerer con Lotem Regev. Il barocco origina una bizzarra coreografia contemporanea sull’amicizia. Ritmo e vivacità: venti minuti spensierati.
La performance partecipativa “I’ll write you something new” di Maria Luisa Usai, alla Gran Guardia, accompagna il weekend rodigino. Un grande tavolo quadrato, attorno al quale siedono con la performer una quindicina di spettatori. Sul tavolo, una grande quantità di lettere manoscritte, che la performer ha spedito a perfetti sconosciuti, e biro e fogli bianchi. Un modo diverso per reagire ai lockdown dell’ultimo triennio e allacciare fili con altre vite. Fili alla Maria Lai, sarda come Usai, ai cui estremi possiamo attaccarci anche noi.
Fili anche con Rovigo, la sua storia e la sua memoria. Uno di questo ha affascinato Matilde Vigna. Che in “Una riga al piano di sopra” prova a ricucire la ferita dell’alluvione del 1951. Curatissimi il progetto sonoro di Alessio Foglia e il disegno luci di Alice Colla, capaci di evocare la tragedia con semplici suggestioni.
La drammaturgia (costruita con Greta Cappelletti) apre uno squarcio nell’identità collettiva della città: errori nella prevenzione e nella gestione dell’emergenza, il dramma dei singoli e della comunità. Le morti, i dispersi, gli sfollati, gli animali d’allevamento macellati in fretta o perduti per sempre. Peccato che l’intersecarsi di quelle vicende storiche dolorose con le vicissitudini semiserie dell’autrice (con il trolley sempre a portata di mano per lavoro, viaggi, per il gusto o la vocazione a non mettere radici) finisca per banalizzare il lavoro. Ogni volta che sale il climax emotivo, subentrano intervalli comici tanto farseschi quanto forzati. Annacquare il testo per smorzare la tensione è una scelta infelice, tanto più se il tema del monologo è un’alluvione.
Azul: teatro nel parco Langer come nella vigna di Renzo nei “Promessi sposi”. Un’altra storia polesana. Un bosco dentro la città. Un polmone verde. Da immergersi. Per entrare in un altrove indefinito. L’incuria ne ha fatto un’area degradata ideale per portarci i cani. Stando attenti a non pestare qualche siringa. Mura diroccate: le rovine di un ex Tiro a segno. Ora quelle mura sono prede degli arbusti. E di alberi in macerie. Eppure “Sentieri”, teatro in cammino verso luoghi da riscoprire, valorizza quel parco, restituendo spiragli di vita alle rovine. Spazi riabitati grazie alle installazioni di Serena Gatti. Che con le musiche site specific di Raffaele Natale sensorizza l’esperienza del camminare insieme ai performer Fabio Pagano e Sophie Thirion. Pare di entrare in un dipinto, paesaggi con rovine d’epoca barocca.
Ridisegnare gli scarti. Disseminare la natura di tracce artistiche: libri, pensieri, simboli mitologici creature arboree. Camminare in silenzio e senza cuffie, per carpire in modo profondo l’anima dei luoghi e la sua voce. Un lavoro sincero che riconduce all’essenza del viaggio: che è conoscenza estetica, rinnovata, di tutto ciò che incrociava la nostra vista senza incontrare lo sguardo.
Tante immagini per “Il volto di Karin” di Cantiere Artaud. Sulla scia di Ingmar Bergman, in un interno domestico monocromo, Ciro Gallorano mette in scena i ricordi claudicanti e qualche rimorso di un uomo al capolinea della vita.
«Tre donne intorno al cor mi son venute, / e seggonsi di fore; / ché dentro siede Amore».
Ma non solo: siedono anche nostalgie, rimpianti, e una giovinezza fuggita in fretta. Scene di vita presente e passata. Un album fotografico. Continui flashback per i performer Davide Arena, Sara Bonci, Matilde Cortivo e Jo Kezich. Uno stile da rifinire che ricorda Alessandro Serra, in particolare quello di “Frame”. L’estetica c’è. Il possesso dei meccanismi teatrali si va consolidando. Attendiamo la compagnia a un’evoluzione che consenta di riconoscerne meglio la poetica e i bisogni. Magari alla prossima edizione del festival.