Siamo zombi ingozzati distrattamente. Intervista a Elvira Frosini

Elvira Frosini e Daniele Timpano in Sì
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Elvira Frosini in Digerseltz
Elvira Frosini in Digerseltz (photo: Futura Tittaferrante)
Il Teatro della Contraddizione di Milano, un teatro minuscolo ma prezioso, da anni votato alla sperimentazione, ha da poco ospitato “Digerseltz” di e con Elvira Frosini, performer romana che conduce da anni, sola o insieme al marito Daniele Timpano, un percorso molto personale. Cerchiamo di approfondire con lei lo spettacolo (dal 28 febbraio al 3 marzo a Napoli, al Teatro Sala Ichos, e poi a Torino per il festival Play with Food) e più in generale il suo percorso.

“Digerseltz” indaga il tema del mangiare. Il cibo come ossessione del nostro tempo, come rito sacrale. In che modo?
Il cibo, il mangiare, è cambiato. E nello stesso tempo è in qualche modo immutabile. È immutabile il fatto che si mangi, altrimenti si muore. È cambiato il contorno, il come, il cosa. Mangiare è ed è sempre stato un rito complesso, che scandisce, disegna e salda la nostra relazione con il mondo, e soprattutto la nostra relazione con gli altri. È un fatto fortemente sociale. Oltre che un atto rituale, che ha molto a che vedere con il nostro rapporto con la morte, la sopravvivenza, quelli che hanno vissuto prima di noi, i morti, quelli che saremo noi… È questo che ho trovato interessante e che ho indagato in “Digerseltz”: il mangiare come rito. Oggi questo aspetto sembra diventato meno visibile, meno importante, nel nostro mondo. È un mondo che mangia, anzi, si ingozza, distrattamente, ossessivamente, ansiosamente, di qualsiasi cosa. In realtà la ritualità, nostro malgrado, continua a pervadere l’atto del mangiare.

Elvira Frosini in Digerseltz
La Frosini in Digerseltz (photo: Michele Tomaiuoli)
Cosa afferma l’atto del mangiare?
Mangiare è una forma di dominio, un atto simbolico in cui si afferma la propria presenza e persistenza nel mondo, un atto indissolubilmente legato alla presenza della morte, alla sua consapevolezza. Nel mangiare affermiamo la nostra vittoria momentanea sulla morte, il suo differimento, e nello stesso tempo mangiare ci avvicina alla morte. Mangiamo la nostra morte, la morte degli altri, e la nostra speranza di travalicarla. In questo senso è un atto comunitario, sociale, ben riassunto ad esempio dal rito della comunione della religione cattolica, ma anche il rito teatrale, che vede l’attore offrirsi come vittima sacrificale per ridisegnare il reale ed un patto con una comunità.
Nel percorrere ed intersecare tutti questi livelli, attraversando piccoli e grandi riti (dalla festa di compleanno al pranzo in famiglia, dall’ultima cena al banchetto funebre) nello spettacolo mi tengo in bilico tra un atto simbolico e rituale e la sua banalizzazione, l’impoverimento di ogni ritualità.
Il nostro mangiare, il nostro mangiare “il mondo”, è in bilico, inconsapevolmente, fra questi due estremi. “Digerseltz” è un lavoro sul mangiare ed essere mangiati, sull’attore che si dà in pasto al pubblico in uno spazio, il teatro, che è una grande bocca. È anche un lavoro sul nostro cannibalismo, sul nostro cannibalizzarci a vicenda, su questa parte di mondo che ha paura, paura di quelli che hanno fame, e si barrica dietro un presepe di cartapesta sventolando le proprie radici, la propria cultura, le proprie tradizioni, la propria “civiltà”.

Ti definisci attrice o performer?
Si tratta di definizioni sulle quali c’è spesso confusione, incertezza, tanti modi di intenderle. Se vado a teatro, non mi chiedo se ho davanti un attore/attrice o un/una performer. Direi che la cosa peggiore che può capitare è che uno vada a teatro e si trovi a pensare che ha davanti un attore o un performer, perché a quel punto sei ancora dove sei, e tu e quello là davanti a te non siete più da nessun’altra parte.
Almeno per quanto riguarda il mio lavoro, una differenza vera e propria non c’è: direi che non c’è un’attrice e una performer ma un’attrice-performer-autrice, una figura che racchiude e attraversa diversi specifici.

In questo senso, parlaci della tua formazione.
Ho iniziato in realtà con la danza. Mi sono formata come danzatrice, e poi son passata ad interessarmi del teatro. Qui mi sono portata dietro il lavoro sul corpo, che è centrale nel mio percorso teatrale. L’ambiente in cui lavori è importante, e per me non è stato certo irrilevante lavorare a Roma, vivere questo clima teatrale devastante e disorientante, ma anche interessante in alcuni casi.
Gli incontri con i miei colleghi dell’area romana, da Timpano a Cosentino ai miei colleghi del Consorzio Ubusettete (Fabio Massimo Franceschelli e Dario Aggioli) son stati in qualche modo importanti. Nel frattempo ho cominciato a insegnare, e ho scoperto che la formazione mi interessava molto ed è diventata in un certo modo parte del mio sistema di ricerca.

Cosa insegni ai partecipanti ai tuoi laboratori rispetto allo stare in scena?
Lavoro da molto tempo nella formazione, principalmente a Roma dove ho lo Spazio Kataklisma, con una scuola annuale, il KataLAB, e spesso anche tenendo workshop intensivi in giro per l’Italia. Da due anni realizzo anche Ecce Performer, un progetto formativo per attori e drammaturghi, in collaborazione con Attilio Scarpellini.
La mia visione del lavoro didattico è quella di uno spazio estremamente privilegiato, confortevole e molto delicato. E’ un luogo dove io stessa non solo trasmetto ma imparo, trasformo e metto alla prova e al confronto la mia metodologia di lavoro.
I laboratori si rivolgono a professionisti e non professionisti. Il concetto più importante che cerco di trasmettere nella didattica è che fare questo lavoro significa non soltanto l’acquisizione di strumentazione tecnica, ma anche e in maniera privilegiata l’acquisizione di un punto di vista sul teatro. Nei laboratori ci facciamo continuamente domande, soprattutto quella sul senso di ciò che stai facendo, in quali termini può avere senso, a chi mi rivolgo, quale dispositivo metto in atto tra me e lo spettatore.

Elvira Frosini e Daniele Timpano in Sì, l'ammore no
Elvira Frosini e Daniele Timpano in Sì, l’ammore no
Collabori con Daniele Timpano, e lui collabora con te. I vostri percorsi, di vita e di teatro, si sono intrecciati da diversi anni. Che influenza c’è tra i vostri reciproci lavori, oltre a quelli che fate propriamente insieme?
Lavoriamo insieme dal 2009. Anche se finora l’unico spettacolo scritto e diretto da entrambi è stato “Sì l’ammore no”, lavoriamo effettivamente a stretto contatto anche nei singoli progetti, discutendo, rimuginando, scegliendo, proponendo, pensando ogni fase del lavoro. Indubbiamente ci sono reciproche influenze sul piano del linguaggio, ma questo è reso possibile da una reale complementarietà e comunanza di sguardo critico sul mondo e sui modi di intendere il lavoro. Insomma siamo due artisti distinti, ma anche – in parte – un ibrido. Però il mio lavoro è mio, e il suo è suo. Ovviamente.

Con Daniele avete sperimentato i primi zombi; sarà il vostro prossimo lavoro?
Posso preannunciare che Frosini e Timpano, dopo i loro “Aldo Morto” e “Digerseltz”, quest’anno lavoreranno insieme sugli Zombi. Zombi, e non Zombies, in omaggio al titolo italiano del celebre film di George Romero “Dawn of the Dead”. E pure, a dire il vero, perché ci suona più maccheronico che inglese.

Ci sveli qualcosa?
Una prima fase esplorativa è stata realizzata lo scorso dicembre per il Teatro di Roma, nell’ambito del progetto “Perdutamente” in diversi spazi del teatro India, coinvolgendo 15 attori selezionati attraverso un laboratorio.
Ora dobbiamo trasformare le suggestioni scaturite durante il lavoro in uno spettacolo compiuto. Ma le idee sono più chiare. Il cosa ed il perché cominciano ad esser limpidi: gli Zombi siamo noi e la Zombitudine è la nostra condizione quotidiana. Così in scena, come in sala. Lo Zombi, per noi, è una metafora della normalità. Non ci interessa tanto il carico grottesco della figura dello Zombi, il sangue, le budella divorate, quanto il suo carico di orrore nell’essere così prossimo alla nostra normalità. Lo Zombi, per noi, è una resurrezione impossibile, incarna tanto la nostra condizione esistenziale ontologicamente fondata sulla nostra capacità di consumo, quanto di questo mondo è la negazione definitiva e inappellabile. Lo Zombi è l’escluso.
Il grande tema sottostante è la morte, o meglio il nostro rapporto di rimozione con la morte. La nostra personale piccola morte e la morte in grande stile, l’apocalisse dell’occidente moribondo, con i suoi scheletri a cavallo e le sue sette trombe.
In questo senso, non ti sfuggirà una certa continuità con i nostri lavori precedenti…
 

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  1. says: Davide - Play with Food

    Bravissimi!
    Siamo molto felici di ospitare Digerseltz il 22 marzo alla Cavallerizza Reale, nell’ambito della quarta edizione di Play with Food – La scena del cibo (www.playwithfood.it)
    A presto e buon lavoro.