Stefano Cenci alla ricerca di una grammatica del Teatro dell’Umano. L’intervista

Silly walks di Stefano Cenci|Stefano Cenci|Del bene
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Stefano Cenci
Stefano Cenci (photo: Filippo M. Fabbri)
Silly Walks/Absolutely Anything. Dovevano essere due spettacoli ispirati all’opera dei Monty Python; il tutto si è condensato nelle due repliche sintetiche del 10 e 11 aprile scorso al Nuovo Cinema Teatro Italia di Soliera (MO).

Stefano Cenci e Dimensioni Parallele Teatro, appropriandosi delle modalità espressive del Flying Circus, ci hanno riportato al cospetto del Ministero delle camminate buffe, muovendo la propria interrogazione teatrale tra sketch e frammenti di una realtà disomogenea e imprevedibile.

Il regista ci racconta oggi la genesi dello spettacolo, occasione di apertura del suo laboratorio permanente allo sguardo di un pubblico, ma anche la costruzione di Arti Vive Habitat – stagione teatrale sul territorio della provincia modenese, il work in progress di un festival a venire e i progetti per il futuro. Ce n’è abbastanza per una lunghissima chiacchierata…

Quasi tutti gli interpreti di “Silly Walks/Absolutely Anything” hanno fatto parte del cast di “Del Bene, Del Male” e provengono dai laboratori teatrali che da dieci anni tieni a Soliera: è segno di una continuità di lavoro sia della tua ricerca artistica che della sua trasmissione?
Solo pochi dei 21 interpreti impegnati in “Silly Walks/Absolutely Anything” fanno parte del cast fisso di “Del Bene, Del Male” – anche perché lì cambia cast ogni volta, traendo materiale umano e poetico dal territorio che lo ospita – ma quasi tutti ne hanno preso parte almeno una volta. Qualcun altro, invece, l’altra sera, era proprio al battesimo da palcoscenico! Un grosso bacino di persone, dai 17 ai 60 anni, frequenta con più o meno continuità il mio percorso artistico e di ricerca a Soliera, che l’anno scorso ha compiuto appunto 10 anni – l’abbiamo festeggiato tutti insieme con “Del Bene, Del Male” in prima nazionale al Teatro Storchi di Modena: eravamo 76 in scena. C’è una grande comunità che si muove attorno ai miei laboratori. E con queste persone sto cercando di indagare, seguendo la mia sensibilità e quello che mi riesce meglio fare e che mi dà più piacere: un teatro che non sia rappresentazione del reale, ma piuttosto intensificazione dell’esistenza.

Del bene, del male di Stefano Cenci
Prove di Del bene, del male (photo: Monica Muzzioli)
Quali sono i punti cardine della tua indagine e in che modo si è intersecata alla creazione?
Questa indagine coinvolge ormai una larga rete di soggetti e realtà che alimentano la mia ricerca, su tutti la compagnia Tardito/Rendina e Carolina Truzzi – coautrice tra l’altro del progetto “Del Bene, Del Male” –  oltre a tutti i teatri, i contesti e le associazioni che hanno ospitato e continuano ad ospitare i miei laboratori intensivi.
Essere al mondo non significa ancora essere presenti al mondo: l’unica condizione per questa presenza è l’esposizione allo sguardo dell’altro, è il presentarsi agli altri. Artisticamente parlando, mi trovo ora alla ricerca di una teatralità che proceda da una dichiarazione di esistenza e permetta alle persone di rivelare il segreto di un’anima ritratta nella sua intimità. Questo mi risulta più semplice con non attori o con attori profondamente disposti al gioco e alla scoperta di altro, a spingersi cioè dove non sanno e/o hanno paura e pudore di andare. Come scriveva Kantor: “Per generare un campo di attrazione dell’impossibile, ci vuole un’ingenua mancanza di esperienza”. Spinto da questo presupposto mi sto muovendo per ricercare una nuova grammatica del Teatro dell’Umano.

Come ha influito il rapporto con i partecipanti ai laboratori e la comunità che accoglie i tuoi spettacoli sulla creazione e nella direzione artistica dell’Arti Vive Habitat?
Il mio personale percorso di direzione artistica dell’attività culturale a Soliera è stata una conseguenza del lavoro laboratoriale sul territorio. Questi laboratori aprono periodicamente al pubblico il lavoro con degli spettacoli, e negli anni hanno catalizzato l’attenzione di moltissime persone (nei primi tempi era un pubblico composto prevalentemente da parenti e amici, poi è diventato sempre più vario) che poi sono divenute la base del pubblico del progetto Arti Vive. Molto del merito di questo felice contesto va dato alle persone, ai ragazzi che seguono i laboratori da anni, e alle associazioni nate per mezzo di essi (Pensieri Acrobati e Dimensioni Parallele Teatro), che con me hanno scritto e messo in scena numerosi spettacoli di successo, divertenti e provocatori, creando una curiosità enorme attorno all’attività culturale solierese. Infine, una grossa fetta del merito va all’assessorato alla Cultura del Comune di Soliera, che da sempre spinge e lavora perché questo fermento lieviti, affinché l’associazionismo (specie quello giovanile) abbia propri spazi e possibilità, oltre a mantenere un occhio molto attento alla qualità delle iniziative.

Nello specifico, come si concretizzano le scelte di programmazione e gestione della stagione di Arti Vive?
È una stagione teatrale, quella di Arti Vive (il momento clou è nel festival di giugno), che ha da subito lavorato per avere un’identità precisa e riconoscibile. Largo spazio alla drammaturgia contemporanea, ad artisti conosciuti a livello nazionale (e non solo) ed emergenti, che hanno come comune denominatore quello di proporre progetti sentiti, veri, non imbastiti attorno a mere logiche commerciali. Inizialmente può essere stata una scommessa, da parte soprattutto dell’amministrazione di un piccolo paese, ma che è stata fin da subito ripagata dal pubblico. Un pubblico di tutte le età, ma tendenzialmente molto giovane rispetto alla media nazionale, che si è formato attorno a spettacoli non consolatori, mai scontati, provocatori, che richiedono partecipazione.
La stessa nascita della Fondazione Campori (che organizza e sostiene il progetto Arti Vive) è dettata da una necessità intrinseca al progetto: la partecipazione. A Soliera esistono i Comitati (una vecchia idea, in fondo) aperti a chiunque, che di fatto, seguendo linee generali da me dettate e condivise dall’assessorato alla Cultura, fanno la programmazione della stagione cinematografica, quella teatrale, i progetti per le scuole, i laboratori, i progetti legati alla biblioteca, il festival e molto altro. Una gestione dunque partecipata, condivisa, e infine “protetta” dalla cittadinanza. Vista la particolare qualità e la sorprendente varietà degli artisti coinvolti di anno in anno, mi sento di dire, contrariamente ciò che ci suggerisce da trent’anni la televisione, che non è vero che il popolo è ghiotto di sole banalità.

Del bene, del male
Del bene, del male (photo: Sara Ghini)
Cosa ha significato, in questo contesto, coinvolgere persone che per anni hanno seguito e sono entrate nel tuo lavoro in un’opera come “Del Bene, Del Male”, uno spettacolo di più ampio respiro, sia a livello artistico che promozionale e distributivo?  
Assieme a Dimensioni Parallele Teatro si è deciso di partecipare al bando Prime Visioni indetto dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Modena in collaborazione con Emilia Romagna Teatro Fondazione, che aveva come finalità la produzione di uno spettacolo che avvicinasse un pubblico under 35 all’attività teatrale nella provincia di Modena. Per noi è stato semplice e naturale farlo, perché di fatto rientrava già da molti anni nel nostro percorso. Così, coinvolgendo Carolina Truzzi, la compagnia Tardito/Rendina, Emanuela Dall’Aglio (costumista della Compagnia della Fortezza) e Matteo Gozzi (responsabile tecnico di Arti Vive che firma le luci dello spettacolo) abbiamo vinto il bando e realizzato lo spettacolo. Questo lavoro è stato l’importante occasione per mettere uno sguardo più consapevole sulle tecniche di creazione e messa in scena affinate negli anni, e per trovare la volontà di applicarle a qualcosa di più ambizioso, andarci più a fondo, farne “metodo”.

All’interno del tuo percorso di regista e autore come si inserisce invece “Silly Walks”?
Come la maggior parte degli spettacoli di questi dieci anni, è un ponte, un passaggio per cercare altro, smarcarmi da me stesso, finendo spesso per non fare altro che ribadirmi.
Per continuare a sperimentare e allenare le tecniche, per abbinare il lavoro di consapevolezza del performer e della continua scoperta che deve mantenere viva nell’hic et nunc teatrale; affinare il lavoro di un attore che contemporaneamente vive lo stesso tempo del pubblico e anche un altro tempo, che è quello epico, allo stesso tempo inafferrabile, dello spettacolo e dell’arte.

Del primo lungometraggio dei Monty Python, “And Now for Something Completely Different” (del ’71), lo spettacolo riprende anche la struttura frammentaria e anti-narrativa. Come avete lavorato nella selezione degli sketch?
I miei spettacoli partono sempre da un percorso di scrittura collettiva. Agli sketch siamo arrivati ad un certo punto, dopo molto lavoro fisico, e come sempre ho lasciato campo libero. Ognuno diceva cosa gli piaceva, lo trascriveva dai video di YouTube, lo ritraduceva e riadattava. Ad un certo punto si è passati ai fatti, e quelli che non divertivano noi in primis finivano per essere dimenticati strada facendo. Il copione, come sempre, si compone man mano. Anzi, nemmeno questa volta ce n’è stato uno vero e proprio. Ognuno aveva i propri pezzi in mente. Poi ho fatto la frittata.

Silly walks di Stefano Cenci
Silly walks (photo: Monica Muzzioli)
In tutti i tuoi spettacoli sono presenti analogie significative. Mi riferisco soprattutto al lavoro sul corpo degli interpreti. Come si contaminano invece le opere fra loro?
C’è una questione fondamentale: da un lato ci sono i corpi che si muovono, senza necessariamente la grazia estetica di una scuola, della danza o della semplice coordinazione sportiva; corpi che si muovono e si spostano carichi di pathos e di pulsioni dionisiache, di voglia di superare se stessi e i propri limiti biologici, di vincere le barriere imposte dalla vita di tutti i giorni, dal sociale. E io alleno questo. Dall’altra ci sono le parole. Prima di arrivare alla parola, però, ci passa molto gioco. E molta sofferenza. Anche quando ho attraversato testi classici, come Shakespeare, così come per “Psicosi delle 4:48” di Sarah Kane, ho finito per maciullare la drammaturgia, farla a brandelli, così che cadesse ciò che non riguardava direttamente me e gli interpreti, per riscrivere tutto quello che sentivamo necessario.
Tutto quello che mi interessa teatralmente è strettamente collegato alle persone che lo fanno con me, non riesco a negarne la biografia come punto di partenza da cui smarcarsi. Da questo deriva la metateatralità. C’è un alto tasso di non finzione (che non ha nulla a che fare col naturalismo).
Questo succede anche in certi sketch dei Monty Phyton, ma è una cosa che sempre faccio.
Anche in “Del Bene, Del Male” ci sono molti punti dedicati agli interpreti, autobiografici e autoreferenziali. Ti ricorderai a Modena della ragazza, nello spettacolo, che mi ha detto: “Stefano, ti volevo ricordare che oggi è il mio compleanno. È il mio compleanno davvero” e io le ho risposto minaccioso: “Certo che me lo ricordo. Non perderei mai l’occasione di farti la festa…” e l’abbiamo festeggiata con torta, regali e coro di auguri. Beh, era davvero il suo compleanno! In quel punto dello spettacolo si celebra sempre qualcosa di vero nel gruppo. A Verona la celebrazione è stata una proposta di matrimonio di uno dei miei allievi storici alla sua fidanzata, anche lei del cast. Si sposano a settembre. È come se chiedessi ai miei interpreti di giocare sempre tre ruoli e di essere contemporaneamente sé stessi, poi attori investiti da un ruolo sociale dal pubblico e infine personaggi epici della drammaturgia di riferimento.
In “Ofelia 4e48”, Elisa ed io ci chiamiamo per nome durante lo spettacolo e siamo Stefano/Elisa, Dottore/Sarah Amleto/Ofelia contemporaneamente e in alternanza. In futuro vorrei continuare a scoprire come far convivere sempre più in maniera completa e complementare l’accadimento, il vero, il contingente, e l’epico, l’artefatto, il sublime dell’arte teatrale.

Il discorso sulla morte è invece l’analogia tematica forse più evidente…
Chi ha visto i miei spettacoli a Soliera in questi dieci anni si è accorto che io non faccio altro che girare attorno al tema della morte. Credo davvero che, alla fine, gli artisti facciano sempre lo stesso spettacolo, cantino sempre la stessa canzone, dipingano sempre la stessa donna… sempre la stessa arte che si adatta alle condizioni del presente. È il tempo che cambia, non noi.

Da alcuni mesi stai lavorando all’organizzazione del prossimo Arti Vive Festival; il sottotitolo di quest’anno è “Andrà tutto bene”. Cosa accadrà a giugno?
L’anno scorso il titolo era ‘Disastri’, avendo dedicato l’edizione ai 70 anni dalla morte di Daniil Charms. Poi c’è stato il terremoto, un’esperienza terribile e i disastri sono arrivati davvero. Quest’anno, scaramanticamente ma anche ironicamente, vista la situazione politica, economica e culturale in cui ci troviamo, l’ho intitolato così. Prenderà vita dal 7 al 16 giugno tra Carpi, Soliera, Campogalliano, Novi di Modena. Sono certo che tutto andrà bene, davvero. [Segue risata diabolica, ndr]. Ci sono ancora parti del programma da completare e sorprese che vogliamo svelare piano piano. Tra gli ospiti già annunciati ci sono le mitiche Cocorosie che saranno la proposta ‘main’ del programma musicale. Da non perdere anche Rover, cantautore francese di cui si sentirà molto parlare nei prossimi anni. A Carpi avremo l’onore di ospitare il “Mercuzio non vuole morire” di Armando Punzo, imperdibile ed emozionante spettacolo di teatro di massa che caratterizzerà la giornata di domenica 9 giugno. Sabato 15 a Soliera sarà la volta di Antonio Rezza con “Fratto X”, e tanti concerti di musica indipendente. Avremo anche Leo Bassi ospite il 13 con “The Best of Leo Bassi”, la tradizionale maratona fotografica… Insomma un mare di roba… Tutti gli eventi (a parte il concerto delle Cocorosie) sono, come da consuetudine, gratuiti.

Ci sono altri lavori in cantiere?
Parallelamente all’organizzazione del festival sto lavorando ad altri due importanti progetti. L’11 maggio debutterà al Teatro Ariosto di Reggio Emilia una mia riscrittura e regia del “Peer Gynt” di Ibsen, con le musiche originali di Grieg, dal titolo “PG. Vivere come se non ci fosse un domani”. Il titolo dovrebbe rimandarti al primo dei gironi di “Del Bene, Del Male”, per ritornare sul discorso della continuità di percorso tra gli spettacoli. Sulla scena cento ragazzi di alcune scuole secondarie sotto la direzione d’orchestra di Luigi Pagliarini. Oltre a loro alcuni degli attori ereditati dal cast dei miei ultimi spettacoli e una colonna visiva (un mediometraggio) da me realizzato con personaggi di carta.
Il 20 maggio poi mi sposto a Verona per un laboratorio legato al progetto Novopera / Opera Academy dell’Arena di Verona per un primo studio su “OthelloSexMachine”, una riscrittura dell’Otello in chiave operistica contemporanea, con il libretto firmato da Cristian Ceresoli e la regia di Alexander Zeldin, con debutto previsto per la prossima stagione. Io sarò Jago, attore tra i cantanti.
Poi gli ultimi dieci giorni di giugno li trascorrerò alla Corte Ospitale di Rubiera con una permanenza artistica dal titolo “Ci ameremo fino alla fine del mondo”, che mi permetterà di ritornare a lavorare con un po’ di calma e cura su “Del Bene, Del Male” in previsione della prossima stagione. Continueremo ad approfondire le metodologie di ricerca e rappresentazione, fino a crearne una versione ‘site specific’ per gli spazi non convenzionali della Corte Ospitale. Oltre a questo, altre iniziative, laboratori, prove aperte e incontri con le realtà locali, una mostra fotografica con gli scatti migliori delle prime rappresentazioni e prove di “Del Bene, Del Male”. E infine qualcosa di completamente diverso, per me… una tanto attesa vacanza. Una partenza.
 

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