Il teatro dopo il lockdown: Osanna al caro vecchio avvenire

Ovvero breve sfogo contro i toni trionfalistici di chi torna a teatro soddisfatto di riappropriarsi della propria routine.

Confesso di essere stato colpito, in questi giorni estivi, dal rincorrersi ed accalcarsi di gioie incontenibili, incommensurabili, urlate ai quattro venti, condite di euforia, contentezza, entusiasmo, esuberanza e vivacità, che alcuni hanno espresso per la grande bellezza del teatro ritrovato. I toni trionfalistici di chi torna ad ammirare e respirare l’aria del palcoscenico, felice di riappropriarsi della propria routine – sai mai cambiasse qualcosa! -, mi hanno provocato una lieve orticaria, foriera di questa provocazione.

Come se avessimo trascorso un periodo in mano al nemico, in celle semi-sommerse nell’acqua stagnante della giungla asiatica, stretti nei morsi della fame e della sete, sotto torture fisiche e psicologiche accompagnate da ogni sorta di privazioni, in stile “Il cacciatore” di Cimino.

Inesprimibile è la gioia, indicibile la consuetudine ritrovata che esplode nelle eterogenee esclamazioni gridate virtualmente. Da condividere al balzo. Ché può sempre servire.
Quasi che fuori dall’ambiente teatrale, di cui tanti si sono lamentati giusto fino ai primi di marzo – causa ingiustizie, mancanze (di pubblico, denari e non solo…), marginalità, abbandoni – niente e nulla avesse rilevanza.
Suggerisco un “hic sunt leones” messo quale monito all’uscita da ogni spettacolo, a ricordarci le atrocità che ci attendono fuori.

Ma a pensarci bene, ci sarà così tanto da gioire?
E che fine hanno fatto le scomode e feroci certezze emerse durante il lockdown su cui tutti si erano ripromessi di riflettere?

Quando, nei mesi che abbiamo trascorso al chiuso (anche se l’aria culturale che si respirava sembrava meno stagnante), si gridava – persi in Meet, Zoom, dirette Instagram o Facebook – che giunto era il momento della grande Rifondazione, del nuovo Inizio, dell’Occasione unica ed irrepetibile da sfruttare ad ogni costo, era solo un temporaneo afflato che sarebbe caduto nel dimenticatoio alla prima occasione?
Non c’è stato il tempo di smettere le mascherine chirurgiche per sovrapporci quelle teatrali, che il gran carro di festival, messinscene (apposite), direzioni artistiche, progetti, premi, incontri, tavole rotonde ed altro si è rimesso in moto e, a colpi di ago e spago – non d’ascia, si badi bene -, ha ricucito, celandolo, lo strappo pandemico foriero di riflessioni, epifanie e crudeli verità, facendo di colpo svanire, come polvere (di stelle?) sotto al tappeto, tutte le “belle” analisi e riflessioni, oltre ai bei propositi del periodo d’isolamento, con tutte le possibilità intraviste – e declamate – all’orizzonte, le grandi occasioni da cogliere al/in volo, stagliatesi al gran sole dell’avvenire.

Vien da augurarsi che non ovunque, non per tutti, sia così…

Aveva comunque ragione Flaiano: ci sono molti modi di arrivare, il migliore è di non partire.

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