Tomasz Kireńczuk alla direzione di Santarcangelo Festival. Intervista

Tomasz Kireńczuk (© Marcin Oliva Soto)|Enrico Casagrande e Daniela Nicolò
Tomasz Kireńczuk (© Marcin Oliva Soto)|Enrico Casagrande e Daniela Nicolò

In occasione di due importanti nomine alla direzione artistica di altrettanti festival teatrali (Piersandra Di Matteo a Short Theatre e Tomasz Kireńczuk a Santarcangelo), abbiamo pensato a un dittico di interviste, attorno agli stessi temi: la direzione artistica e il contesto del territorio; 2020 anno senza teatro; pubblico e critica; un maestro della ricerca.
Cominciamo oggi con Tomasz Kireńczuk, futuro direttore artistico del Santarcangelo Festival: 37enne co-creatore di Dialog Festival a Wrocław e fondatore di Teatr Nowy di Cracovia, guiderà il festival nel triennio 2022-2024

La direzione e la curatela artistica e il loro contesto

L’Emilia Romagna, come terra storicamente fertile del teatro italiano, ha oggi una geografia di capitali della ricerca, da Rimini a Cesena, a Ravenna, Parma… In che modo Santarcangelo è inserito in questo contesto, e quale autonomo valore credi possa continuare a produrre?
È proprio come l’hai descritta, l’Emilia Romagna è il “paese del teatro”, sono tantissimi i gruppi che non solo sono nati in zona, ma che hanno incominciato la loro carriera internazionale a Santarcangelo. Così il festival può essere uno spazio in cui si presentano anche artisti locali, permettendo loro un confronto con tutto ciò che sta succedendo all’estero. Diciamo che è un posto in cui l’influenza può andare in due direzioni, dall’Emilia Romagna verso il mondo e viceversa. Questo sarebbe il mio sogno.

In cosa credi che consista la particolare eredità di Daniela Nicolò ed Enrico Casagrande (Motus), attuali direttori artistici, a questo festival?
È difficile parlare del lavoro degli artisti che ti precedono, nel loro caso, poi, ci sarebbe davvero molto da dire. La prima cosa che mi viene in mente è il modo incredibilmente efficace in cui Daniela ed Enrico hanno affrontato la situazione di questo periodo così terribile. Sono stato a Santarcangelo nel 2020 ed è stata un’esperienza unica, ritornare così in presenza: hanno fatto un lavoro impressionante, era pieno di artisti e gente.
Ma anche ciò che è stato fatto a dicembre, online: un’idea completamente pazza, tutti questi artisti emergenti insieme (il progetto Winter is Locking Down, che si può rivedere per intero qui). Insomma, come direttori artistici hanno dimostrato la forza e la necessità del festival. Anche perché abbiamo visto quanti hanno deciso, invece, di non far nulla, rimandando tutto all’anno successivo.

• 2020, l’anno senza teatro

Credi che rinunciare a proseguire un festival durante la pandemia fosse un’idea sbagliata?
No, anche quella scelta ha le sue ragioni, era una possibilità. Ma se dirigi un festival devi sempre cercare le nuove possibilità di connettere gli artisti alla gente. I Motus hanno interpretato in pieno questa necessità, con una programmazione interessantissima che intercettava il bisogno della gente di andare a teatro, di incontrare gli artisti, di stare insieme.

In tanti festival quest’estate si è respirata quest’aria, come di ritrovata libertà, anzi di liberazione – che a ripensarci oggi, dove siamo, fa ancora più male.
Sì, proprio così. Dopo tutti quei mesi in cui eravamo rimasti chiusi in casa, andare a teatro ci ha dato la possibilità di ricordare cosa voleva dire stare insieme, dal vivo. Se anche le cifre dei festival online non sono state cattive, il teatro si fa dal vivo, ed è un’esigenza che non si può sostituire con altro. Ma insomma, per tornare a quest’estate, quei quattro giorni a Santarcangelo mi hanno dato un sacco di energia, di ispirazione: è stato un momento molto importante per me.

Bisogna piegarsi a questa possibilità del teatro online, qualunque cosa vogliamo intendere e qualunque manifestazione vogliamo includere in questa etichetta naïf?
Beh, condividere spazio e tempo insieme, vedere e sentire i corpi, sentire ciò che accade contemporaneamente è la specificità del teatro. Allo stesso tempo bisogna ricordare che anche il teatro cambia. Mi vengono sempre in mente i Motus: quando hanno cominciato a mettere i video negli spettacoli c’era gente che si chiedeva se quello fosse ancora teatro. Dopo vent’anni lo fanno tutti. Inoltre, dopo quest’anno di pandemia, mi sembra che sia il caso di imparare qualcosa da quest’esperienza che stiamo vivendo. Mettere uno spettacolo online non come sostituzione, ma come un modo per connettere un pubblico che altrimenti non verrebbe mai a vederlo, ecco, forse questo è qualcosa a cui dobbiamo pensare, che dobbiamo valutare. C’è un festival qui a Cracovia, che si chiama Boska Komedia, che è stato completamente spostato online, per la pandemia: certamente non è stata un’esperienza teatrale vera, ma se guardiamo le cifre degli spettatori e contiamo che sono salite a 50000 persone, e consideriamo che si sono collegate da tanti piccoli paesi limitrofi, dalle altre città, questo ti fa pensare a quella responsabilità che ti dicevo, di creare uno spazio di esperienza culturale per chi non ha questa possibilità. Di connetterlo. Come sfruttare quest’esperienza bisogna però ancora capirlo del tutto.

Enrico Casagrande e Daniela Nicolò
Enrico Casagrande e Daniela Nicolò

Pubblico e critica

In relazione alla raggiungibilità, all’importanza del teatro nello spazio civile. L’importanza del teatro, e parliamo ora di teatro in presenza, è mantenuta nonostante il teatro non sia più (o non sia mai stato) un mezzo di massa, ma un mezzo minoritario, marginale. Si può fare a meno dei grandi numeri?
Questo è vero: dal punto divista della quantità, la gente che segue il teatro è una piccola percentuale dei cittadini, questo è certo. Ma se noi guardiamo le manifestazioni pubbliche che hanno origine dagli eventi culturali, queste sì che possono essere importanti. Cioè, se un’azione artistica mette nel dibattito pubblico una questione importante, e riusciamo a uscire dal chiuso campo artistico e lanciarla nel mondo, da qui un cambiamento può cominciare. Insomma il processo è più lungo, non è fatto solo di due fasi: il teatro deve essere il primo anello di questa catena, esso ci aiuta a capire cosa siamo e cosa vogliamo cambiare. In teatro possiamo sperimentarlo: se qualcosa funziona lì, allora è un inizio.
Una specie di laboratorio delle relazioni, di comunità, del modo di parlare e di pensare.

Hanno ragione quindi quanti dicono che più che il risultato è soprattutto il processo l’obiettivo a cui dobbiamo rivolgere l’attenzione?
Secondo me il processo di creazione è fondamentale. Spesso ci concentriamo troppo sull’effetto, ma il teatro non è solo questo, è tutto il processo, dall’inizio, da chi siamo, perché facciamo teatro insieme, in questo posto, in questo momento, in questo modo; come lavoriamo, come stiamo insieme, come ci riuniamo, a chi vogliamo arrivare con il nostro messaggio. Certo, poi c’è l’effetto finale, e per un festival come Santarcangelo questo è fondamentale, per la gente che vuole conoscere nuovi artisti e nuove opere d’arte. Ma un festival deve ripensare anche uno spazio in cui tutti si interrogano sul posto in cui siamo nella società, sui metodi di produzione, le relazioni, il potere, anche nel teatro, che è qui in Polonia un problema di strettissima attualità.

E in tutto ciò la critica? Ancor più nel dettaglio, in questo momento storico e proprio in quest’attualità sconcertante della pandemia, quale dovrebbe essere il suo ruolo?
La critica permette di vedere uno stesso lavoro da diverse prospettive, e questo è valido sempre, in generale: ripensare tutto quello che fai, in qualunque ruolo tu stia lavorando, è fondamentale. E la critica ti aiuta a farlo, oltre che a capire se sei stato compreso, se sei stato abbastanza chiaro ed efficace. Ma ora, durante la pandemia e il lockdown soprattutto, le voci della critica e degli intellettuali in genere hanno tenuto alta la presenza del nostro mondo, che sembrava scomparso, e invece era soltanto costretto al silenzio. È servita e serve a maggior ragione tutt’ora, perché dai suoi spazi di dibattito pubblico, fa da pungolo al mondo politico, così terribilmente disattento, per continuare a ricordargli che la cultura esiste e ha bisogno di attenzione. Sono pochi, questi spazi, ma ci sono, e senza di essi, come dicevo prima, quasi si sarebbe potuto credere che le compagnie, per esempio, che non potevano andare in scena, fossero improvvisamente scomparse.

• Un maestro

Ho letto in una tua intervista: «Mi stupisce ogni volta che in Italia Grotowski sia ancora un punto di riferimento nella pratica teatrale, mentre in Polonia è considerato un personaggio storico che rientra nei programmi educativi delle scuole teatrali, ma i cui insegnamenti non sono più praticati in ambito sperimentale». Qual è secondo te la ragione di questa lunga sopravvivenza di quel preciso esperimento, in Italia e della rapida storicizzazione che ne è stata fatta in Polonia? Credi che nasconda dei bisogni particolari, specifici delle nostre due recenti storie nazionali del teatro di ricerca?
No, non credo. Penso che la ragione, in generale, sia invece più legata a fattori pratici, alla storia dell’attività di Grotowski in Italia e in Polonia. Quando è andato via dalla Polonia, ciò che ci è rimasto è stata soprattutto la memoria dei suoi spettacoli: per noi lui era principalmente un regista teatrale – e le sue regie, oggi, dal nostro punto di vista, sono regie classiche. Invece in Italia, il periodo post-teatrale di Pontedera è la parte del suo lavoro che ha avuto una maggiore influenza, proprio perché era lì, vicino a voi. Oltretutto, l’importante centro di Pontedera ha saputo con grande efficacia farne crescere le idee teoriche, svilupparle, diffonderle. In Polonia solo recentemente il nostro Istituto Grotowskj, che era più concentrato su un lavoro scientifico, si è avvicinato a lui su un piano più pratico-artistico.

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