Non è facile presentare l’Ibsen messo in scena a Roma da Massimo Popolizio, prodotto da Teatro di Roma – Teatro Nazionale. Come esige una delle produzioni di punta della stagione, la campagna mediatica è generosa ed efficace. A una serie di incontri sui testi più noti del drammaturgo svedese, curati da studiosi e critici, in cui convogliano i percorsi di formazione del Teatro denominati “Arrembaggio” e “Per un attore divulgatore”, si unisce la pubblicazione di “making of” sulle piattaforme social. Un libretto di sala assai gradevole riporta accanto a un’intervista all’attore e regista, un pezzo narrativo di una certa ricercatezza, opera di Alessandra Bernocco, sorta di cronaca scelta delle prove, e un vecchio ma acuto saggio di Luigi Squarzina, a cui si deve anche la traduzione adottata nella messinscena. C’è poco da aggiungere a una così corposa opera di divulgazione e spiegazione, prodiga anche dei cari vecchi manifesti che numerosi invitano il pubblico della capitale. Insomma, “Un nemico del popolo” si presenta da sé.
La trama ruota attorno alle posizioni “scientifiche” ma inaccettabili del dottor Stockmann, il quale scopre che l’acqua dei bagni termali che fanno la fortuna economica della piccola cittadina in cui vive sono inquinate da batteri dannosi per l’uomo. Tutta la società, nelle persone della piccola e media borghesia, dei grandi azionisti, della classe politica e della stampa, prima elogia e poi dichiara inammissibile la scoperta del dottore, le cui conseguenze sarebbero la perdita dei capitali investiti nel centro termale e la chiusura di tutte le attività a esso connesse.
La scelta della messinscena trasporta il luogo dell’azione dalla Norvegia a un non meglio precisato luogo degli USA ottocenteschi, forse il Mississippi twainiano, con tocchi di Mahagonny per il fervore capitalista che lo abita.
La scenografia (di Marco Rossi) è costruita sopra un’unica texture, una carta da parati applicata su muri che salgono, scendono, si compongono in geometrie diverse per fingere la casa del dott. Stockmann nel primo, secondo e quinto atto, la redazione del giornale “La voce del popolo” nel terzo e una sala conferenze nel quarto.
Le luci essenziali, sempre in equilibrio tra le necessità di servizio e l’estetica (di Luigi Biondi), fredde ma non disumanizzate, hanno carattere naturalistico, e solo nell’ultimo atto si permettono un ingresso da quinta spettrale, attraverso le finestre infrante, allucinato come la casa del povero dottore ormai infangata dall’odio popolare e assaltata con cieco furore dal popolo.
Anche i costumi hanno una linea naturalistica, ma più il personaggio scivola verso il carattere buffo e grottesco, più essi stessi l’accompagnano, con copricapi troppo calcati, cappottacci di pelle sdrucita e salopette su corpi nudi.
Di pari passo, la recitazione rivela un lavoro attento. La chiave generale è quella del grottesco, accuratamente dispensato in quote sempre crescenti man mano che il ruolo si fa secondario, e anche all’interno delle parti viene riservato in dosi maggiori ad alcune scene, meno ad altre. Tocca il suo massimo nel caricaturale Kiil di Francesco Bolo Rossini e nell’untuoso Hovstad di Paolo Musio.
Un discorso a parte va fatto per Maria Paiato, che ricopre il ruolo del sindaco, fratello del dott. Stockmann (Massimo Popolizio). Un ruolo en travesti che non è giocato nella finzione della mascolinità né nell’aperta citazione del femminile, ma che al contrario riesce a ignorare completamente il problema, fornendo un’interpretazione così al di là, così al di sopra delle caratterizzazioni di genere, da rivelare Paiato come un organismo scenico totale, assoluto, uno strumento che fa a meno di aggettivazioni, perché potrebbe potenzialmente assumerne di infinite. Tanto che persino il registro grottesco è in lei il meno calcato, o meglio il meno esteriore: non ricorda mai sé stesso, ma si trasfonde tutto nel contenuto del testo detto, con una autorevolezza e una misura inimitabili. Un’ulteriore grande lezione di teatro, la sua.
Proprio sul testo è stato compiuto, in generale, un lavoro di parca addizione e di equilibrata sottrazione. Ciò che è aggiunto è un ampliamento della piccola comica parte dell’ubriaco (Martin Chishimba), in Ibsen presente solo nel quarto atto, a cui vengono affidati cinque brevi monologhi introduttivi a ogni atto, il cui scopo sembrerebbe poco più che tecnico, utili come sono ai mutamenti di scena a vista. Ciò che invece di apparentemente secondario, al di là di alcuni personaggi poco più che di contorno, è sottratto dal testo originale rivela la direzione della lettura di Popolizio.
Nel testo ibseniano il ruolo di Stockmann è qualcosa di più di quello di un baluardo della verità, di un profeta ignorato e vilipeso dal popolo bruto. Egli è anche l’intellettuale anti-sistema, così onesto e cristallino da giungere, partendo da un sincero amore per quella verità, a dichiararsi apertamente antidemocratico, elitario, a suggerire quasi l’idea di un’oligarchia dei savi che tenga le redini del mondo. Ed è anche l’antipolitico, l’uomo che proprio poiché si mantiene oltre ogni limite onesto e puro, si ritrova ininfluente, quasi la caricatura di sé stesso. Ed eccolo che si accontenta di ritirarsi a far da maestro a quattro “cagnacci pulciosi di strada” sognando una realtà in potenza come sfogo della propria incapacità di far presa su quella in atto.
Nonostante la lettura di Popolizio attenta, tecnicamente impeccabile, tenda senz’altro verso un’interpretazione sfumata e critica, e non voglia fare del “Nemico del popolo” un dramma edificante sul valore della scienza contro le tenebre dell’ignoranza e dei crassi interessi economici, essa si ferma leggermente prima del comico fallimento del dottore. Non a caso ogni riferimento al ruolo del ripiego dell’insegnante è eliminato, così come quelle brevi battute anticipatorie che raccontano il rifiuto della figlia del protagonista, per molti versi la versione più ingenua e stolida del padre (Maria Laila Fernandez), che non accetta l’offerta di gestire una scuola in proprio, lei che tanto criticava la grettezza dell’istruzione statale. La rifiuta per manifesta incapacità.
L’urgenza dell’attuale contingenza storica di condurre una battaglia contro il populismo, contro la piaga di una stampa che spesso non risponde alla propria missione di informazione limpida ma a quella di coccolare una platea che “ha bisogno di sapere cose che già conosce” convince dunque il regista a gettar luce soprattutto su questi temi, senza peraltro tradire il testo. E anche se la chiusa, in cui vediamo uno Stockmann che cammina lento verso il fondo, bagnato da una luce epica, con un passo da cow-boy solitario, è comica, e fa il verso alla figura dell’eroe troppo avanti per i suoi tempi, nel momento più caldo del testo, cioè durante la scena madre del discorso antidemocratico, il livello della comunicazione è diretto, chiaro, rivolto al pubblico, senza mediazioni. E Stockmann è davvero quell’eroe. L’odio verso “la maggioranza” ottusa parla per bocca del personaggio al pubblico dell’Argentina che si sente chiamato in causa, e applaude concorde a scena aperta. E dunque, proprio in quanto élite chiamata in causa (producendo un involontario corto circuito con il discorso sulla stampa a cui si accennava poco sopra), il pubblico è insieme destinatario e oggetto di un altro e del più evidente dei temi d’attualità presenti nel lavoro: la dualità cocente tra un giusto riconoscimento dei valori culturali e l’appianamento del giudizio in nome di un livellamento pseudodemocratico anche nelle idee.
E perché non vi siano dubbi sul fatto che è proprio questo il centro del discorso di questa produzione, dal testo è tagliato chirurgicamente un passo da quel gran monologo: quello nel quale Strockmann paragona l’incolto al “botolo di strada”, inferiore, e l’uomo acculturato al “can barbone” ben educato e abituato alla civiltà da generazioni. Dunque superiore. Un paragone per la doppia ragione biologica e sentimental-animalista oggi improponibile, indigesto.
In scena a Roma fino al 28 aprile.
UN NEMICO DEL POPOLO
di Henrik Ibsen
traduzione di Luigi Squarzina
regia Massimo Popolizio
con Massimo Popolizio (Dottor Thomas Stockmann) e Maria Paiato (Sindaco Peter Stockmann)
e con Tommaso Cardarelli (Billing), Francesca Ciocchetti (Katrine Stockmann), Martin Ilunga Chisimba (un ubriaco), Maria Laila Fernandez (Petra Stockmann), Paolo Musio (Hovstad), Michele Nani (Aslacksen), Francesco Bolo Rossini (Morten Kiil)
e con Dario Battaglia (Gregor), Cosimo Frascella (Lamb), Alessandro Minati (un portiere, un fotografo), Duilio Paciello (Evans), Gabriele Zecchiaroli (Forster)
scene Marco Rossi
costumi Gianluca Sbicca
luci Luigi Biondi
suono Maurizio Capitini
video Lorenzo Bruno e Igor Renzetti
assistente alla regia Giacomo Bisordi
produzione: Teatro di Roma – Teatro Nazionale
durata: 1h 50’
applausi del pubblico: 2’
Visto a Roma, Teatro Argentina, il 4 aprile 2019
Prima nazionale