La linea curatoriale seguita da Marie Chouinard al suo ultimo anno di mandato alla Biennale Danza di Venezia è sembrata contrapporre lavori in linea con una danza ancora molto ‘danzata’ (proposti negli orari serali, più partecipati, e in spazi più capienti), ad altre presentazioni molto più prossime al performativo, realizzate in spazi ridotti e negli orari pomeridiani.
Una scelta, condivisibile o meno, che ha avuto il suo punto di splendore nei ritratti multipli presentati su due figure tra loro molto lontane, quali il coreografo emergente della scena francese contemporanea Noé Soulier, e la coreografa belga Lisbeth Gruwez, cui la Chouinard ha scelto di affidare due lavori ciascuno, permettendo alla scena veneziana di incontrare qualche tessera più definita del mosaico che compone il panorama europeo della danza contemporanea.
Due ritratti che, coinvolgendo il coreografo parigino Soulier, classe 1987, si moltiplicano con un il suo “Portrait de Frédéric Tavernini”, una performance che porta nei gesti del corpo il genere del ritratto. Un’intuizione non da poco, che vede in scena un performer (Frédéric Tavernini) che, dopo aver danzato per Maurice Béjart, Mats Ek, Trisha Brown e William Forsythe, indaga qui una visione intima che ne racconta l’archivio umano a partire dai tatuaggi impressi sulla pelle, nelle più svariate porzioni del corpo.
Soulier è anche presente in scena insieme ad un pianoforte in chiaroscuro, sulla destra del palco: suona e legge una serie di brevissimi testi che anticipano le forme e i contenuti di ciò che, solo dopo, uno ad uno, Tavernini mostrerà. Si susseguono i tatuaggi: per la figlia, per i cuori spezzati, fino a quelli per le nuove visionarietà dell’artista, che nel momento migliore del lavoro, dopo aver versato dell’acqua di fronte al pubblico creando un piccolo stagno artificiale, si specchia – novello Narciso – nelle molte potenzialità di una simile struttura coreografica.
Assistiamo ad un lavoro in grado di contenere un mondo ed una storia nella loro estrema essenzialità non narrativa, opposto alla coralità travolgente dell’altro suo spettacolo in programma, “Les Vagues”. Una faccia diversa del Soulier ritratto dalla Biennale della Chouinard, che è probabilmente la più conosciuta, nella quale invece i sei performer in scena abbinano movimenti dal carattere corpuscolare a suoni eccezionali realizzati dalle percussioni dell’Ictus Ensemble.
Stupisce il momento in cui una di loro – la migliore, Meleat Fredriksson -, illuminata da un unico fascio di luce al centro del fronte scena, apre una parentesi teatrale, parlata, che con pochi termini (al gusto di un ricordo perturbato dall’infanzia) fa spiccare il volo alle ambizioni teoriche dell’evento scenico.
Si sente, in questi brevi momenti in cui i performer interpretano le micro-storie di alcuni personaggi, o forse in fondo solo di loro stessi, quanto siano solide le premesse teoriche e di pensiero di questo lavoro. Una teoria che diviene presto movimento, conferendo alle scelte coreografiche di Soulier una propria peculiare cifra stilistica che è quella di un movimento puro, astratto, tutto proprio di quella tendenza al ‘danzato’ che, rischiando spesso di risultare fine a sé stesso, in questa riuscita creazione mostra invece le sue splendenti possibilità contemporanee.
Scelte riuscitissime e parallele a quelle fatte per la Gruwez, tra le presenze più positive della rassegna, cui sono stati invece affidati due lavori nei quali il suo nome compare, all’interno dei titoli, definendola come l’interprete possibile di due grandi lasciti musicali, tra loro lontanissimi ma qui avvicinati in maniera interessante: “Lisbeth Gruwez dances Bob Dylan” e, in una serata precedente, “Piano Works Debussy”.
Forse troppo classico il movimento di risposta al secondo – non è sembrato infatti aggiungere molto ai capolavori del compositore francese – pur piacevolissimo da partecipare in qualità di spettatori, ci ha avvinto invece il primo, vero masterpiece, da vedere e rivedere, da programmare e da far arrivare a molti, per la riuscitissima forma off style.
Una selezione antologica di brani del cantautore premio Nobel viene quindi interpretata in forma danzata dalla Gruwez dopo che Maarten Van Cauwenberghe (insieme formano la compagnia Voetvolk) mette, uno ad uno, i dischi in vinile da una live music station illuminata, all’estremità sinistra del palco, da una luce arancione che pende dall’alto.
Le canzoni che arrivano agli spettatori, con tutta la materialità e la corporeità dei mezzi con cui sono rielaborate, si abbinano alla perfezione con la coreografia scelta dalla danzatrice: come quando, sul grande nero specchiante del palco, si allontana, dando le spalle al pubblico e attraversando (senza un reale avanzamento) un cerchio di luce; o come quando Van Cauwenberghe prende inaspettatamente la lampada che gli è prossima, che diventa l’unica fonte luminosa della scena grazie allo spegnimento di tutte le altre luci, trascinando l’atmosfera complessiva in un mondo umbratile in cui il corpo della Gruwez ritorna per estatiche accensioni.
Il pezzo, nella sua versione non censurata dal Covid, avrebbe voluto, dopo le birre e qualche sigaretta fumata già tra un brano e l’altro dai due, che il pubblico invadesse il palco per ballare senza restrizioni le canzoni di Bob Dylan: una mancanza resa ancora più amara dallo stop dei teatri arrivato pochi giorni dopo.