Sia il pubblico che la critica erano assai ansiosi di assistere al nuovo spettacolo della compagnia Carrozzeria Orfeo “Miracoli metropolitani” che, nonostante la pandemia in corso, era riuscito comunque a debuttare a fine luglio al Napoli Teatro Festival.
Purtroppo la successiva ulteriore chiusura dei teatri ha proibito alla nuova creazione di circuitare e, per ora, di farsi conoscere.
Tuttavia l’attività di Carrozzeria Orfeo in questi mesi non si è mai fermata, realizzando nuovi progetti e opportunità. Ne abbiamo parlato con il regista Gabriele Di Luca, approfondendo anche il contenuto dell’ultimo spettacolo, soprattutto in riferimento al concetto di “comico”, e ragionando sul tempo difficile che la scena italiana sta attraversando.
Tra la prima e la seconda ondata di Covid, avete debuttato con il nuovo spettacolo “Miracoli metropolitani”. Come si innesta nel vostro percorso, caratterizzato da uno stile e una poetica ben precisi?
“Miracoli metropolitani” è il racconto della solitudine sociale e personale che ogni uomo, ma in fondo un’intera umanità, affronta quotidianamente: quell’incolmabile vuoto che sta per travolgere la sua esistenza. Siamo di fronte al disfacimento di una civiltà, alla dissoluzione delle relazioni e dell’amore inteso in tutte le sue accezioni, all’azzeramento del ragionamento e del vero “incontro” a favore di dinamiche sempre più malate, tra le quali un’insensata auto-reclusione nel mondo parallelo del web, pericoloso sostituto del mondo reale. Il risultato è la più totale solitudine esistenziale: l’alimentazione, il rapporto con il cibo come forma di compensazione al dolore, come alienazione di un Occidente decadente e sovralimentato, sempre più distratto e imprigionato dai suoi passatempi superflui, la questione ambientale, la solitudine e la responsabilità sono i temi attorno ai quali si sviluppa il mondo (stupido) di “Miracoli metropolitani”, uno spettacolo dove si ride tanto, ma dove non si sta ridendo affatto.
Di cosa parla?
Mentre all’esterno le fogne, ormai sature di spazzatura e rifiuti tossici, stanno esplodendo e allagando la città, gettando la popolazione nel panico e costringendola ad una auto-reclusione forzata in casa, in una vecchia carrozzeria riadattata a cucina, specializzata in cibo a domicilio per intolleranti alimentari, si muovono otto personaggi vinti dalla vita: Plinio, chef stellato, oggi caduto miseramente in rovina, costretto a cucinare squallidi cibi precotti e liofilizzati importati dalla Cina; sua moglie Clara, ex lavapiatti e infaticabile arrampicatrice sociale; Igor, loro figlio, un ragazzo di 19 anni con grossi problemi di disabilità emotiva, auto-recluso ormai da mesi nella propria stanza e ossessionato da un videogame sulla guerra, “Affonda l’immigrato”, unica valvola di sfogo per le proprie frustrazioni esistenziali; Hope, una misteriosa, aggressiva e buffa lavapiatti etiope che nasconde un grande segreto e obiettivi moralmente discutibili, e Mosquito, un carcerato aspirante attore costretto ai lavori socialmente utili grazie ad un accordo tra il direttore del carcere e Clara, che lo sfrutta per accedere ai fondi europei. Come se non bastasse, si uniscono alla famiglia Cesare, aspirante suicida che casualmente entra a far parte della “squadra”; Mohamed, professore universitario in Libano e rider sottopagato e sfruttato in Italia, e Patty, la madre settantenne di Plinio, ex brigatista e femminista convinta, che dopo aver speso la vita ad aiutare i popoli di mezzo mondo nella lotta contro le dittature di destra che li opprimevano, è tornata in Italia per combattere la sua ultima battaglia: a causa dell’emergenza fognaria il governo è costretto ad emanare un decreto di sostegno per le fasce più deboli della popolazione. Ma ecco che, quando tra i beneficiari, vengono inclusi anche gli immigrati, violenti gruppi di destra iniziano a perseguitarli e ucciderli impunemente al grido di “Prima la Patria”. Un nuovo capro espiatorio è stato trovato, un facile nemico a portata di mano da strumentalizzare politicamente, che in breve tempo porterà ad una guerra civile che precipiterà nella costituzione di un nuovo governo dai chiari richiami fascisti.
Certi temi ben si collegano al tempo che stiamo vivendo.
La scrittura di “Miracoli metropolitani” è iniziata prima dell’emergenza sanitaria del Covid-19, già immaginando una società chiusa in casa: all’esterno i trasporti sono fermi, la disoccupazione tocca il 62%, le attività commerciali falliscono quotidianamente e la Messa della domenica ormai si celebra soltanto in streaming. L’esplosione delle fogne è il simbolo di un pianeta che si rivolta concretamente all’uomo per riaffermare se stesso e ribellarsi a decenni di incurie, prevaricazioni e abusi ambientali. È una società, quindi, che sta per essere sepolta dai suoi stessi escrementi, metafora di pensieri e azioni malate, di un capitalismo culturale orribile, di un’umanità ai ferri corti con se stessa, dove la “merda” più che nelle fogne sembra annidarsi nei cervelli.
Quali sono stati gli input per la scrittura?
Lo spettacolo è nato da tre suggestioni: la volontà di indagare il tema del cibo come problema reale per gran parte del mondo e bene di lusso per un minuscolo Occidente opulento, fatto di alta cucina e reality show; la lettura de “La sincronicità” di Jung, il teorizzatore dell’esistenza degli eventi a-causali, ovvero tutti quegli eventi che si sottraggono alla rigida regola del rapporto causa/effetto per manifestarsi come coincidenze speciali o noumeniche, come le definisce l’autore, che spesso noi chiamiamo – e viviamo come – miracoli. E infine da un fatto di cronaca inquietante quanto bizzarro: nel settembre 2017, nelle fogne del quartiere di Whitechapel a Londra, è stato trovato dai sommozzatori fognari un enorme fatberg (letteralmente un iceberg di grasso calcificato) che occludeva il tratto fognario. Il “mostro”, fatto di feci, salviette umidificate, pannolini, condom usati, sigarette, telefonini, e centinaia di altre schifezze che i londinesi per decenni hanno gettato nello scarico del wc, pesava 130 tonnellate (quanto 11 autobus a due piani) ed era lungo 250 metri.
Il testo è stato selezionato per la terza edizione del progetto americano Italian Playwrights Project, che mira a promuovere la scrittura creativa contemporanea all’estero. Cosa prevede il progetto?
Il progetto, la cui presentazione ufficiale si sarebbe dovuta svolgere in presenza a New York, se non fossimo ancora in questa situazione di emergenza globale, prevede due anni di percorso nei quali il testo verrà tradotto in inglese per poi essere promosso in America e, più in generale, nei paesi anglofoni, alla ricerca di nuovi interlocutori (teatri, università, artisti) al fine di far conoscere la drammaturgia italiana e darle la possibilità di emergere anche in contesti internazionali.
Questa opportunità si inserisce all’interno di una progettualità sull’internazionalizzazione che Carrozzeria Orfeo porta avanti parallelamente al lavoro di distribuzione nazionale.
Ossia?
Oltre alle molteplici collaborazioni teatrali e pedagogiche con la Svizzera italiana, territorio con cui collaboriamo da diversi anni, Carrozzeria Orfeo è stata selezionata dal Festival Internazionale di Almada (Portogallo), dove nell’estate del 2016 ha presentato “Thanks for Vaselina” sottotitolato in portoghese. E nel 2019 a Barcellona è andata in scena la versione catalana dello spettacolo, diretta da Sergi Belbel. Alcuni miei testi, tradotti in francese e tedesco, sono stati affidati ad alcuni interlocutori internazionali impegnati nella promozione e nella distribuzione della drammaturgia italiana all’estero. E a maggio 2021 sarò al Festival italiano del cinema di Malaga per presentare il mio film e tenere due seminari al Corso di Regia e Sceneggiatura Cinematografica dell’Università e all’Accademia d’Arte Drammatica.
Facciamo un passo indietro e torniamo a “Prove generali di solitudine”. In cosa è consistito?
Per contribuire attivamente all’emergenza che il mondo della cultura si è trovato ad affrontare durante la prima emergenza, Carrozzeria Orfeo (col patrocinio di Fondazione Cariplo e il sostegno di Marche Teatro, Teatro dell’Elfo, Teatro Bellini di Napoli, Teatro Nazionale di Genova e in collaborazione con PAC Paneacquaculture) ha promosso “Prove generali di solitudine”, concorso di scrittura teatrale in quattro fasi aperto a tutti, con la volontà di intercettare il maggior numero di sensibilità possibili e coinvolgerle all’interno di un percorso virtuoso che potesse indagare creativamente le disfunzioni del presente, le nuove dinamiche generate dall’emergenza e i potenziali cambiamenti che ne sarebbero derivati. L’obiettivo primario era quello di trasformare le innumerevoli esperienze soggettive prodotte dal lockdown in materiale artistico condivisibile, stimolando la comunità con fantasia ed ironia. Ciascuna fase, incentrata di volta in volta su una parola chiave (contagio, complotto, solitudine, #andràtuttobene), è stata accompagnata da stimoli drammaturgici: un breve brano, una poesia o una riflessione da me selezionati, uno stimolo musicale originale composto da Massimiliano Setti e uno stimolo grafico proposto dall’illustratore Federico Bassi, spunti a cui “aggrapparsi” per indagare al meglio il tema/parola proposto e presentare un monologo di massimo tre pagine nella forma della stand up comedy.
Il progetto si è concluso più che felicemente: 2000 testi ricevuti nelle quattro fasi del concorso, 12 vincitori per un montepremi complessivo di 4.000 euro, quattro i presidenti di giuria: Luca Zingaretti, Vinicio Marchioni, Paola Minaccioni, Lino Guanciale. I testi vincitori (e alcuni finalisti) sono stati pubblicati sulla rivista PAC, che ha creato il #pacvoto, sondaggio in cui i lettori hanno potuto votare i testi.
“Periferie Interiori” ha invece promosso incontri con artisti assai diversi tra loro: al centro del dibattito cultura e bellezza.
Durante la seconda emergenza sanitaria, impossibilitati a mostrare sulla scena i nostri spettacoli, abbiamo deciso di concentrare le nostre energie in un ciclo di incontri autorevoli con alcune personalità del mondo della cultura e dello spettacolo. Lo scopo è mettere al centro del dibattito la cultura e la bellezza con l’obiettivo di proporre nuovi strumenti di lettura e indagine del presente, in un momento storico in cui le nostre identità di uomini e cittadini appaiono ancora più fragili e incerte.
Periferie Interiori, quindi, come luogo della perdita e dell’assenza: di storia, di desiderio, di significato. Luoghi che incarnano le offese e le ferite inferte ai nostri paesaggi più intimi. Un piccolo viaggio, un itinerario poetico dentro un’urbanistica dell’anima che costituisce il pretesto per parlare anche di amore, futuro, cultura e riscatto.
Franco Arminio, Giobbe Covatta, Brunori Sas… Cosa ne è venuto fuori?
Il primo incontro è stato con Franco Arminio, poeta e scrittore con cui abbiamo parlato di teatro e poesia – le parole e l’arte come “farmacia culturale”; il secondo è stato con il simpaticissimo Giobbe Covatta, con il quale ci siamo confrontati sul tema del “comico” come funzione sociale indispensabile, e abbiamo aperto un dialogo sul tema teatro-solidarietà sociale che ha anche attivato un’ iniziativa di sostegno per AMREF Africa in vista dell’anomalo Natale che ci attendeva; la terza diretta l’abbiamo fatta con Brunori Sas con il quale abbiamo parlato di teatro e musica, creatività, scrittura, arte popolare e di massa.
L’ultima del 2020 è stata con Lino Guanciale, attore molto conosciuto, sensibilissimo e poliedrico, con il quale abbiamo messo al centro del confronto il teatro, cercando di svelarne le debolezze sistemiche con l’intento costruttivo di ipotizzare soluzioni virtuose. Tutte le dirette sono visibili sulla nostra pagina Instagram. Il progetto è anche un modo per donare al nostro pubblico la possibilità di assistere ad un confronto con artisti noti che difficilmente riescono a dialogare in modo approfondito, per un’ora e mezza, su temi specifici e mettersi completamente a disposizione di un pubblico teatrale.
A proposito di pubblico, perché i vostri spettacoli hanno così successo?
In tredici anni d’attività, con nove spettacoli all’attivo – che hanno maturato quasi 1000 repliche – e il film “Thanks!” disponibile su Netflix, la compagnia prosegue nel suo teatro pop, fatto di drammaturgie originali che trovano ispirazione nell’osservazione del nostro tempo, in cui l’ironia si fonde alla tragicità e il divertimento al dramma. Il risultato è un’escursione continua fra realtà e assurdo, fra sublime e banale, attraverso storie che possono essere lette a più livelli, e proprio per questo possono essere fruite trasversalmente da diversi pubblici.
Ci siamo accorti di essere amati dai giovani tanto quanto da molti “abbonati” abituati ad un altro tipo di teatro. Ciò che ci preme è proporre un teatro ossessivamente aderente ai temi della realtà proprio per problematicizzare i temi fondamentali del presente e intercettare l’intimità più fragile degli spettatori. In questo senso è un teatro che, per quanto a volte metaforico, cerca di svincolarsi dall’elemento prettamente simbolico per entrare a gamba tesa nella vita quotidiana delle persone, laddove si annidano paure, ossessioni e punti deboli. L’obiettivo è portare sempre più pubblico a teatro, dimostrando che l’impegno civile e sociale può essere felicemente coniugato ad una visione emozionante, profonda e divertente della realtà.
Il teatro pop, quindi, vince.
L’“intrattenimento” è uno degli elementi costitutivi di uno spettacolo. Crediamo in un potenziale teatro di massa che possa riportare a teatro anche le fasce sociali più fragili, persone che ad oggi a teatro non ci vanno per mancanza di interesse o di mezzi. Il sogno quindi sarebbe quello di avere, seduti in platea, anche muratori, operai, disoccupati, disabili, prostitute, immigrati… perché è al popolo che deve rivolgersi il teatro. Credo che le persone apprezzino il nostro lavoro soprattutto perché ne colgono l’onestà dei presupposti: nevrosi, infelicità immutabili, rabbia, ma anche molta tenerezza e voglia d’amore. Lo sfogo e il turpiloquio linguistico come descrizione di habitat sociali e racconto di alcuni personaggi ma, al tempo stesso, come elemento di catarsi in una società fintamente perbenista e politicamente corretta. A proposito di questo punto, riporto un brano tratto da “Cous Cous Klan”, che esemplifica bene il mio pensiero:
“Noi occidentali non vinceremo con le bombe, annienteremo voi stranieri con le parole. Perché lo sai qual è la differenza tra noi e voi? Che noi in occidente ci siamo evoluti e abbiamo inventato una parola meravigliosa che si chiama “apparenza”. Ti dice niente? “Apparenza”. In soldoni vuol dire che quando sei dentro casa tua hai il diritto di essere completamente infelice e fare le cose peggiori, basta non lo fai vedere agli altri e non dici parolacce. Mai. Le parolacce mai! Significa che puoi fare a pezzi la vecchia nonna e rubarle la pensione se ti va, ma basta che quando ti disfi del cadavere lo fai seguendo le regole della raccolta differenziata. Ma soprattutto significa che possiamo liberamente insegnare ai nostri figli ad odiarvi, non solo a voi…odiare anche i froci, le lesbiche, gli strani, gli handicappati… ma basta che la domenica li mandiamo a cantare nel coro della chiesa. E allora capisci che con queste premesse non potrete mai vincere. Uccideremo tutti i vostri bambini a casa vostra e la gente a casa nostra darà comunque ragione a noi. E lentamente vi scaglieremo addosso tutto il mondo e faremo in modo che nessuno di voi possa più camminare liberamente per strada senza essere odiato. E tutto questo perché mi sono dimenticato di dirti che insieme ad “apparenza” abbiamo inventato anche un’altra parola meravigliosa: PAURA. E solo Dio sa quanto è potente”.
In voi c’è l’elemento del comico, non così frequente nel teatro contemporaneo.
L’elemento del comico è molto, troppo, sottovalutato nel nostro Paese. Male interpretato e spesso inteso come desiderio di compiacimento, ammiccamento al pubblico. Nulla di più sbagliato, perché dal mio punto di vista dietro al riso del singolo si nasconde un’intenzionalità collettiva. Le istituzioni attraverso le quali la società produce il comico – il teatro in primis – danno la misura di quanta rilevanza la coscienza sociale attribuisce a questa funzione.
Come diceva Marx, nell’Introduzione alla Critica della filosofia del diritto di Hegel, “L’ultima fase di una forma storica è la sua commedia. Gli dei della Grecia, che già una volta erano stati tragicamente feriti a morte nel Prometeo incatenato di Eschilo, dovettero una seconda volta morire comicamente nei dialoghi di Luciano. Perché questo corso della storia? Perché l’umanità si separi gioiosamente dal suo passato”.
Come autore, ho sempre sentito che il comico ha una marcia in più rispetto al genere tragico: perché se la tragedia è un’indagine quasi monolitica e immutabile del destino umano, la lotta di un eroe contro l’inafferrabile assoluto che non si può sconfiggere, il comico è la tenerissima critica dell’assoluto in nome della fragile esperienza umana.
Lo diceva Freud: “Il comico è un atto creativo e liberatorio mediante il quale poter esprimere sentimenti e pensieri associati a vissuti di difficoltà e disagio in forma attenuata senza che questo danneggi l’individuo e gli altri. È quindi catarsi collettiva”. L’aggressività è dunque una potenziale e importante componente nell’umorismo; anche Nietzsche affermava che ridere significa “essere maligni mantenendo la coscienza tranquilla”.
Il comico, nella sua connotazione più elementare, è destinato a divertire, provocare volontariamente o involontariamente allegria, presentarsi come un’evasione spassosa; ma esiste anche un carattere cognitivo del comico (quello che io credo di indagare), ovvero la sua capacità di esaltare la comprensione. Nella comicità intelligente c’è lo scopo implicito e/o dichiarato di gettare luce sulla realtà. Si demolisce, quindi, la realtà ben nota, si svela la sua fragilità, e al contempo si aiuta la mente a guardare il mondo con occhi nuovi.
Il comico si presenta, inoltre, come veicolo di sfida dei sentimenti morali convenzionali: indaga e sottrae i tabù dall’ombra peccaminosa nel quale li ha gettati l’ortodossia del mondo e della ragione, ha una funzione socio-positiva nel rafforzare la coesione di un gruppo (le persone che ridono insieme provano un senso di appartenenza); ha poi anche una funzione esistenziale, indagando il contrasto fondamentale tra l’uomo e l’enormità pachidermica dell’universo e ci aiuta a riconciliarci, attraverso l’autoironia, con la nostra finitezza, facendoci sentire più leggeri davanti al “senso di morte” che speso ci pervade. In questo senso il comico costituisce, quasi cristianamente, un’altissima forma di perdono.
Cinematograficamente parlando, e in conclusione, come autore scrivo dei Dramedy, ossia storie costruite su un impianto tragico ma affrontate in modo comico. È un genere molto diverso dalla commedia pura perché il mio teatro parte sempre dalla disgrazia, dalla mancanza, dalla ferita. Ritengo, quindi, che il pubblico si senta sempre al tempo stesso toccato intimamente dalla tragicità della storia e alleggerito dalla comicità attraverso cui questa viene affrontata. Non è un caso che la maggior parte delle persone, a fine spettacolo, dichiarino: “Mi sento confuso, non sapevo più se ridere o piangere”.
— fine prima parte —