
L’ombra di un figlio. Un canneto che si intravede oltre la finestra come l’idea dell’idroscalo e la fotografia dell’ultimo Pier Paolo Pasolini. Poi il sogno di un padre borghese sessantottino, Laio che annienta Edipo, e la struttura narrativa che si appoggia sugli otto episodi della tragedia “Affabulazione”.
Sono questi gli spunti dai quali prende vita lo spettacolo di Fabio Morgan e Leonardo Ferrari Carissimi “Tutti i padri vogliono far morire i loro figli” con la compagnia CK Teatro, già vicina nel suo percorso alla figura di Pasolini (ricordiamo lo spettacolo “Superstar” visto da Klp qualche anno fa).
Entrando in sala il sogno è già in scena, con un uomo in dormiveglia disteso a terra sul quale pende minacciosa l’ombra del figlio, o forse della realtà che l’uomo non vuole accettare, perché accettarla significherebbe assumere il ruolo tanto combattuto, significherebbe diventare padre.
Carlo allora, così il figlio chiamerà suo padre, apre gli occhi ma senza svegliarsi, rifugiandosi nell’insidiosa e sospesa dimensione onirica. È così che, dalle prime battute, si capisce che gli attori sono in una sorta di trance che vorrebbe essere rivelatrice, che vorrebbe farsi essa stessa sensitiva e chiaroveggente.
La regia di Leonardo Ferrari Carissimi va avanti per quadri e con le luci di Antonio Scappatura dipinge con cura gli otto episodi di questa moderna affabulazione edipica, quasi fosse la mano di Hopper a restituire il sofisticato gioco di spazi metafisici e di inquietudine. Il regista mette su tela la solitudine dei figli di oggi in una società senza padri, l’insensatezza di un Edipo che tradisce il mito e si fa assassino di sé stesso, incapace di reagire all’ingombrante assenza del padre.
Sui personaggi pesano gli echi sordi del sogno, il sentimento di qualcosa che non si è visto, o che non si ricorda, che si è perso nel recondito del proprio inconscio.
I legami in scena seguono dunque i meccanismi alterati di ciò che sperimentiamo nel sogno. Il padre, interpretato da Mauro Santopietro, riesce a risultare uomo pesante, fastidioso, folle e infantile, mentre Luca Mannocci indossa alla perfezione la sofferenza del figlio tanto quanto la sua felpa e quel cappuccio che, almeno nel sogno, diventerà cappio.
In una lunga ora e venti lo spettacolo disegna il ritorno di un padre nella sua famiglia dopo 15 anni d’assenza, dopo i sogni del ’68 che sostituiscono, nelle battute di questo spettacolo, le vicende di Edipo trattate dall’ombra di Sofocle nel testo di Pasolini.
Il padre, fingendosi malato, cercherà di ricucire il rapporto con il figlio che non ha mai conosciuto, figlio con il quale finirà per scontrarsi ferocemente e che porterà all’annientamento.
Nel foyer il testo integrale dello spettacolo si può leggere e portar via su un foglio ‘formato giornale’, quasi a ricordare che si parla di cronaca nera, della morte dei padri, del delitto di Pasolini, o forse ancor più della storia degli ultimi 30 anni e del delitto che hanno commesso i nostri padri “agendo nella ferma convinzione che il mondo finisse con loro”, lasciando a noi la pagina nera dell’economia capitalista.
L’analisi che il testo fa della società odierna poggia su una ricerca condivisa, in un teatro che di ricerca e qualità se ne fa promotore. Lo spettacolo prende le mosse da un autore amato, un autore che a Roma è di casa, e questo è sicuramene l’anno di Pasolini, lo confermano le date, lo riecheggiano i quartieri di Roma e lo palesa la scena teatrale della capitale, farcita di spunti sul poeta che, quarant’anni fa, apriva una voragine dietro l’idroscalo di Ostia che probabilmente ancora non siamo riusciti a richiudere (non soltanto per l’archiviazione in febbraio dell’ennesima indagine sulla sua morte).
Ma l’analisi è così percorsa, masticata, conosciuta e accettata che a tratti eccede nel pleonasmo. Paradossalmente ciò che tradisce lo spettacolo è forse proprio la sua voce da padre onnisciente, ripetitivo, prevedibile nei movimenti e nei suoi difetti (ancor di più alla luce di “Affabulazione”), e nonostante la realtà onirica sia ricostruita dagli attori con talento e generosità. Dietro il sogno si sente una voce che spiega piuttosto che suggerire, che fa ripercorrere piuttosto che immaginare, che parla piuttosto che lasciar pensare. E che non scuote.
Il pubblico fatica a restare aggrappato al testo nonostante la tragedia non conceda interruzioni e le provocazioni, specialmente quelle sessuali riprese in buona parte da Pasolini, siano forti. Ma “Affabulazione”, in versi, è già stato scritto.
La scena finale chiude il quadro, consegna (non)senso alla recitazione alterata dall’atmosfera epica e onirica. Ma il risveglio non è abbastanza evocativo, aderisce in maniera autolesionista alla ciclicità dell’affabulare sul doloroso e irrisolto mistero dell’essere padri e figli.
Perché questo spettacolo, curato in maniera attenta e minuziosa, faccia faticare il pubblico non è facile da spiegare.
A noi resta l’impressione che le energie umane spese nel progetto siano tante; tuttavia ci ricorda che il teatro, soprattutto quello di parola, non gode della specificità silenziosa e disponibile della pittura, che può esser apprezzata in momenti differenti. A teatro lo spettatore si concede per essere rapito in quell’istante, per esser parte in qualche modo del quadro e sentire, non solo a livello intellettivo, che – nonostante il cappio che portiamo al collo – qualcosa dentro di noi è vivo e si muove.
In scena a Roma fino al 3 aprile.
TUTTI I PADRI VOGLIONO FAR MORIRE I LORO FIGLI
di Fabio Morgan e Leonardo Ferrari Carissimi
regia Leonardo Ferrari Carissimi
scene e costumi Alessandra Muschella
disegno luci Antonio Scappatura
tecnico luci Martin Emanuel Palma
con Irma Ciaramella, Anna Favella, Chiara Mancuso, Luca Mannocci, Mauro Santopietro
produzione: Progetto Goldstein, Teatro dell’Orologio
durata: 1h 20′
applausi del pubblico: 1’
Visto a Roma, Teatro dell’Orologio, il 20 marzo 2015