Città del Cairo, oggi.
Una famiglia dell’alta borghesia si ritrova per cena.
Seduti su stilosissime sedie Philippe Starck, serviti da domestici zelanti e tate obbedienti, la famiglia conversa: business, macchine, società, instagram, Occidente: “Preferite Londra o Parigi? La Fayette o Harrods?”.
Ahmed El Attar trasforma la sala da pranzo di una famiglia cairota in un osservatorio sociale.
Ciò che accade in scena è molto semplice: gli invitati arrivano, baci e convenevoli, si siedono a tavola e attendono la cena. Al centro della tavola e della famiglia il padre. Nei suoi confronti esagerate manifestazioni d’affetto e reverenza mentre lui, piccolo, con un perenne sigaro in bocca, parla di denaro.
Tra una portata e l’altra le donne si scambiano consigli su tate tailandesi e gossip dell’ultim’ora, gli uomini discutono tra il serio e il faceto e i domestici, stretti in un’altra gerarchia, presenziano, servono, si inchinano e sottostanno alle angherie di due bambini decisamente viziati.
Una trama decisamente semplice che lascia spazio all’osservazione particolare di una società che sotto molti aspetti è sorprendentemente simile alla nostra.
“Sono partito a scrivere dalla parola ‘attualità’ – racconta il regista, non nuovo a testi dalla tematica sociale – Ma non l’attualità della rivoluzione, piuttosto quella che conosce e di cui fa parte la società borghese”.
E così El Attar siede a tavola l’Egitto che conta e ne mostra la vacuità. In scena non povertà e analfabetismo, ma coloro che hanno la possibilità di riflettere, viaggiare, vedere il mondo e crearsi una coscienza, ma che non fanno assolutamente nulla perché ciechi interiormente.
Il sentimento che domina “The Last Supper”, presentato al Festival d’Automne di Parigi, è che la storia non ha valore: il mondo può crollare, cambiare, ma continuerà sempre ed ovunque ad esserci gente che vive come niente fosse. La figura paterna è perno della scena come lo è dell’Egitto.
Il padre è il presidente, Hosni Moubarak, è Mohamed Morsi, è Abd al-Fattah al-Sisi, e come loro, questo omuncolo detiene il potere.
El Attar, nella scena conclusiva, trasformerà la tavolata di sorrisi e smancerie in tribunale impietoso. Un domestico reagisce all’ennesima provocazione del bambino. Scoppia l’inferno. Crollate le maschere emerge la violenza. Bisogna punire il colpevole in modo esemplare, di fronte a tutti, per ricordare che l’ordine va mantenuto. Solo il padre ha il potere di decidere cosa è giusto e cosa sbagliato. Non esiste difesa e l’ammenda sarà ridicolmente agghiacciante.
Con una semplicità invidiabile El Attar riesce a rivelare all’interno del microcosmo della famiglia il macrocosmo sociale, cadendo solo a tratti in sottolineature che svelano insicurezza nella regia. L’affresco creato con il suo ensamble basta a sé stesso ma, complice forse l’idea di rendere più evidente ad un pubblico straniero il suo punto critico, El Attar pecca forse nel rimarcare ciò che è già evidente anche ai nostri occhi occidentali. Il realismo è rotto da momenti di totale astrazione. Colori, suoni e portate eccezionali – pezzi di animali macellati – esaltano le contraddizioni di ciò che stiamo osservando riportando in scena il teatro.
Rimarcabile invece il lavoro sul testo. Lo spettatore si confronta con un testo senza alcun senso. In scena si sprecano parole ma non si dice veramente nulla. Un chiacchiericcio senza fondo che la compagnia ha riprodotto in un lavoro certosino, riuscendo nella difficile impresa di rendere in maniera perfetta un parlare senza comunicare.
Il lavoro sulla recitazione è evidente e profondo. I bravissimi undici attori si muovono a loro agio sulla scena e nei panni di questi personaggi disegnati così bene da parer reali.
“Quando comincio le prove con gli attori – racconta ancora il regista – non utilizzo il testo, mi interessa, piuttosto, creare personaggi che vivono a prescindere di quello. Per due o tre mesi lavoro di improvvisazione per creare un ensemble di attori capaci di stare in scena anche senza saper dire nulla per ore”.
Il risultato è evidente e fa riflettere sulle nostre tempistiche di prova.
“The Last Supper” riporta in scena con leggerezza uno dei principi più antichi del teatro. Il regista ci regala un affresco prezioso di una società che conosciamo davvero superficialmente.
Il suo pensiero politico si esprime senza egocentrismo e nella scelta del titolo esprime una speranza di cambiamento. Una cena che sia ultima non nel senso cristiano del termine ma, piuttosto, per il desiderio che la storia davvero possa cambiare.
THE LAST SUPPER
testo e regia: Ahmed El Attar
con: Mahmoud El Haddad, Mohamed Hatem, Marwa Tharwat, Boutros Boutros-Ghali, Abdel Rahman Nasser, Ramsi Lehner, Nanda Mohammad, Mona Soliman, Ahmed Farag, Mona Farag, Sayed Ragabm
musiche: Hassan Khan
scene e costumi: Hussein Baydoun
luci Charlie Åström
composizioni sonore Hussein Sami
durata: 1h
applausi del pubblico: 4’
Visto a Parigi, T2G Theatre de Genevilliers, il 15 novembre 2015