Roberto Latini: la mia coscienza, il sistema teatro e le platee narcotizzate. Intervista

Roberto Latini (photo: Fabio Lovino)|Metamorfosi
Roberto Latini (photo: Fabio Lovino)|Metamorfosi

“Grazie per l’occasione in più… Ogni volta è complicato dire delle cose dopo uno spettacolo, perché spero sempre di non peggiorare quello che avete già visto…”.

Inizia così, con quella sottile, e a larghi tratti esplosa ironia che lo caratterizzerà, il folgorante incontro con Roberto Latini e il suo Fortebraccio Teatro al Teatro Era di Pontedera. Moderato dal critico Igor Vazzaz, e aperto ad un pubblico sorprendentemente variegato, intervenuto il 5 febbraio per “Amleto + die Fortinbrasmaschine”, conclude una tre giorni intensa, partita con le “Metamorfosi” e l’episodio intimo di Narciso: 12 minuti per spettatore solo.

Insieme a Latini anche le altre “anime fondamentali” per l’atto creativo della compagnia: Gianluca Misiti, cuore musicale del gruppo, con cui 25 anni fa ha fondato a Roma Fortebraccio, ma ancor prima compagni d’infanzia, poi di teatro, prima di tutto amici. “Gianluca per il lavoro che facciamo è co-autore, sempre, fin dal primo spettacolo, nel 1994”.
E poi Max Mugnai, architetto responsabile del disegno luci e di scena.

“Ho fatto la scuola di Perla Peragallo – racconta Latini al pubblico – e il mio Leo De Berardinis è Perla e Leo, neanche Leo e Perla. Io ho conosciuto Leo attraverso Perla. Come diceva De Berardinis, l’attore reagisce alla scena, ed è questo che faccio: essere continuamente la reazione che ha a che fare con la reattività. Anche Gianluca e Max, che sono alla regia, reagiscono a quello che avviene, perché voglio essere nella libertà di accelerare, rallentare, interrompere, sospendere, a seconda della relazione che viene dall’ascolto con il pubblico. Come in un organismo vivo che respira in quel momento”.

Lasciata alle spalle la parola progetto (“perché mi ha sempre dato quella sensazione strategica, di non sapere ogni volta che cosa seguirà”) hanno sposato l’idea che il loro fare teatro “fa parte di un programma, con tutti gli incidenti sperati che potranno avvenire e che permetteranno di modificarlo…”.

Dal pubblico qualcuno chiede se ce la fanno a campare con questo tipo di teatro. “Grazie per questa domanda… Fino a qui ci ho vissuto. Poi c’è stato un tipo, che si chiama Carmelo Bene, che diceva che Amleto vivacchia, canticchia. Siamo dei privilegiati…”.

L’incontro col pubblico si conclude, e arriva il momento di ritrovarci. La prima volta era stato nel dicembre 2007, in un caffè vicino a Piazza Fiume, a Roma.
In quell’occasione c’era l’entusiasmo per una nuova avventura che stava cominciando: la direzione artistica del Teatro San Martino di Bologna. In seguito, dopo pochi anni, arriverà la chiusura del teatro: dal 1° maggio 2012 Fortebraccio Teatro rinuncerà alla gestione del San Martino.

Ripartiamo da lì. Cos’è successo?
Abbiamo programmato, grazie all’impegno di tutti quelli che sono venuti. E mi vanto di aver chiuso un teatro, perché a un certo punto bisogna davvero avere un rapporto con la propria coscienza e darsi un limite alla complicità rispetto a questo sistema.

Chiuso perché?
Perché è veramente un lavoro… Per una compagnia di produzione era un servizio che ci impegnava moltissimo, e ci reclamava anche dal punto di vista economico. Non si può fare quel tipo di lavoro senza il supporto e l’appoggio, se non dei soldi, almeno della pacca sulle spalle. Siamo rimasti da soli: la regione Emilia Romagna avrebbe dato anche un sostegno, ma il comune di Bologna niente. Per due anni abbiamo fatto solo le nostre cose, ed era quella la mia forma di denuncia politica: non posso invitare più nessun altro. Siamo riusciti a chiuderlo, e siamo tornati alle nostre produzioni. Mi dispiace molto, soprattutto perché tante compagnie non sono più arrivate a Bologna.

Erano venute grazie a voi?
Fondamentalmente grazie a loro.

Vi siete poi fermati a Bologna?
E in tutti quei luoghi dove possiamo dialogare ed essere accolti.

Che ne pensi di Roma oggi?
Roma secondo me è quello che prometteva di diventare: una moribonda. E il mio atto di responsabilità è stato non partecipare a quella moria. Speravo potesse essere altro, e un po’ lo è stato. Come noi anche altri se ne sono andati. Diventa un percorso di sopravvivenza alla fine davvero feroce…

Darwin insegna…
Si fa la conta dei sopravvissuti, e c’è tanta gente… Ho detto che siamo dei privilegiati, nel senso che ancora insistiamo. Ci muoviamo in una realtà che dovrebbe essere percepita nella sua mutevolezza, e questo sarebbe un bene. Purtroppo c’è la sensazione di esser fermi, o con un piccolo movimento troppo lento rispetto a quello che diventiamo, e che diventa il teatro in generale, in una società in cui le forme di comunicazione viaggiano ad una velocità fenomenale. E anche noi pensiamo, ragioniamo e ci relazioniamo ormai sempre più velocemente. Questo credo sia da tenere in conto proprio rispetto al teatro: non solo lo spettacolo, ma proprio il sistema teatro; e lo dico da spettatore, oltre che da persona che finisce in scena.

Si avverte grande curiosità, gioco, gioia, ma anche dolore e profondità umana nel vostro teatro.
C’è questa frase di Flaiano, che è finita nel nostro spettacolo e suona perfettamente per il teatro in generale: “Il gioco è questo, cercare nel buio qualcosa che non c’è, e trovarla”. C’è tanta curiosità, disponibilità da parte nostra, come quando stai al gioco: e di non fare il teatro. La cosa bella, proprio del teatro, è che possiamo fare finta, ma per davvero: stabilito il patto con lo spettatore, tutto quello che viene è nella dimensione di questa relazione.

Una grande onestà, come nel momento dell’essere e non essere: rispettare le regole, ma permettendoci anche di stupirci in queste regole…
È quello che chiediamo, in un tempo in cui ci sono delle platee narcotizzate dalla passività. Lo capisco perfettamente, siamo comunque figli di questa televisione, addirittura tanto teatro è diventato televisione dal vivo: persone che vanno a teatro come se si mettessero sedute sul divano di casa per vedere la tv, e pensano di poter fare le stesse cose. Magari vorrebbero anche cambiare canale…
Quello che proponiamo dal palco affronta questa condizione. Certo, non ci mettiamo nella disponibilità di quella passività; piuttosto preferisco se ne vadano.

Metamorfosi
Metamorfosi

In questo è esemplare “Metamorfosi”, che inizia come un grande circo per arrivare a Mariangela Gualtieri…
Quello è stato un percorso dentro una grammatica. Imbattersi nell’apparizione della figura del clown è l’unica forma per saltare completamente, subito personaggio e attore. Dal clown passiamo direttamente all’essere umano. La percezione dell’essere umano sotto quella maschera è costante. E non pensiamo mai al personaggio, all’attore: sono paralleli, in un binario che procede insieme. Non sono dei clown che “clowneggiano”: quando lo fanno è come se gli toccasse di farlo. Mi son raccomandato molto di non farsi prendere dalla forma, dalla clownerie: nessuno è clown, quella è una cosa veramente seria. È come se fossero nella condizione del clown, e quindi nella condizione degli esseri umani.
Arrivare a Mariangela Gualtieri vuol dire arrendersi alla poesia.

E arrendersi a questi istanti che raccogliamo, come nel frammento di “Blade Runner” citato in “Amleto + die Fortinbrasmaschine”: è tempo di morire, tutto questo si scioglierà. E’ questa forse la dimensione del teatro, dell’uscire dallo spettacolo. Finisce l’incanto, e chissà quanto rimarrà nello spettatore…
Sì, e morire, dormire, e dormire, o sognare forse…

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