Solo i crepuscoli sono chiaroveggenti per gli uomini
(Luigi Pirandello)
Chi è ad avere il diritto, e chi il dovere, di parola? Quali le parole che possono raccontare il nostro domani imminente (quello che sarà e quello che vogliamo?). C’è possibilità di una nuova retorica? Quali le cose indicibili, le immagini indescrivibili, ma comunque necessarie?
Sono alcune delle domande, di certo interessanti e centrali, poste a firma del direttore artistico Fabrizio Arcuri nella scheda di apertura del festival Short Theatre 2014.
Questi i punti di partenza a cappello e indirizzo del ricco programma della nona edizione della rassegna, uno degli appuntamenti romani più seguiti dagli appassionati e dagli addetti ai lavori del teatro contemporaneo nostrano. Oltre due settimane di incontri, spettacoli, performance, letture, per cercare di delineare attraverso dei fatti d’arte un profilo di questo tema del linguaggio come ‘territorio di costruzione di un nuovo immaginario’.
Ogni visione è, per fortuna, parziale, e dunque quanto è stato dato di cogliere da chi scrive è sicuramente solo un piccolo pezzo del puzzle che il programma va a costruire. Una parzialità dovuta non solo dall’impossibilità di seguire l’intera rassegna ma al contempo da una certa concezione di linguaggio forse persino troppo stratificata per permettere una vera purezza d’ascolto.
È pur vero che il teatro apre però, in chi lo desideri, uno spazio di libertà qualora si entri in sala senza aspettative: questa per lo meno è la meta verso cui tendere. Ci si prova, anche quando talvolta si è messi alla prova.
All’interno del festival si snodano e vengono ospitate varie sotto-rassegne, una delle quali risulta essere opera davvero interessante ed eccezionale: il progetto si chiama La terra sonora e si occupa da vari mesi di portare in Italia il teatro di Peter Handke.
Da tempo studiosi (in primis Valentina Valentini), traduttori, attori (tra cui una delle coordinatrici del progetto, Daria Deflorian) si dedicano alla trasposizione delle opere per la scena del geniale autore austriaco – non solo creando reading e performance, ma traducendo tutte le opere, che vedranno la luce da qui ai prossimi anni per Quodlibet.
Il 7 settembre allora è stato riproposto “Insulti al pubblico”, un lavoro ormai ‘storico’ dell’Accademia degli Artefatti, per la regia dello stesso Arcuri.
L’opera è sempre attuale e la Deflorian, con Pieraldo Girotto, crea una coppia concreta e meditativa molto spassosa e al contempo assai densa da seguire.
Il tema – come è stato poi sottolineato all’interno delle ‘Conversazioni’, altra sotto-parte del festival – è quello che riguarda gran parte del lavoro di Handke, ossia il tempo. Un tempo che, in “Insulti al pubblico”, viene scandito sotto forma di parola, non solo mediante la parola ma quasi come se parola e tempo fossero la stessa cosa. Viene descritto ciò che sta accadendo, e mentre scorre questa descrizione, l’accadimento passa, il tempo si fa materia di discorso, rendendosi percepibile. Una strana forma di verità, espressa tramite la bravura indiscussa dei due interpreti, che nell’essere rodato non perde di smalto e di fulgore.
Il fulgore resta, e abbacinante come è nella cifra del regista e interprete, nella lettura data dal Fortebraccio Teatro di Roberto Latini de “I giganti della montagna – atto I” di Pirandello.
Latini è un artista che divide, poiché netta è la sua presenza e la modalità del suo stare in scena: sempre verticale, centrale, a tratti iperbolico.
In questo lavoro si supera nel fascino della visione, anche grazie ai preziosi elementi di scena di Silvano Santinelli, che trasformano lo spazio in un magnifico campo di grano. Con Latini c’è Federica Fracassi, certamente in sintonia con il regista, creando un duetto di maestria e furor sacro, in una lettura pirandelliana contemporanea, fedele e orfica, quasi oracolare, come lo è la frase scelta qui a epigrafe (non a caso considerata verità per questo nostro tempo dentro e fuori i teatri) e pronunciata da una figura già quasi a cavallo del sogno.
Non convince invece la lettura curata sempre da Latini il giorno seguente, all’interno del progetto Fabulamundi – Playwriting Europe, sezione del festival dedicata alla scoperta di testi di lingua tedesca e messi in scena o letti da compagnie italiane.
Questo progetto ha enormi potenzialità ma risulta piuttosto fragile nella scelta dei testi: proprio qui, dove l’attenzione andrebbe concentrata sulla parola (laddove si dia spazio a drammaturghi giovani e viventi, in traduzione), più debole si fa invece il rapporto col testo.
I due testi che chi scrive ha potuto seguire sono risultati a tratti insulsi e a tratti francamente incomprensibili. Più fruibile “Come zanzare nella luce” di Anne Habermehl, letto appunto da Latini; decisamente pretenzioso “Il peggiore dei casi” di Kathrin Röggla, con la mise en espace di Teatro i.
Questo lavoro, curato nella drammaturgia sonora, nella messa in scena, nella recitazione (soprattutto della brava Paola Tintinelli) parte da un tema caro ai nostri giorni, quello della catastrofe. Ma il tema viene declinato in un linguaggio che si vorrebbe a sua volta esploso, distorto, mentre il risultato è un lungo incomprensibile alternarsi di voci, che non portano ad alcuna riflessione ma soltanto alla noia.
Non porta alla noia invece guardare un bravo attore in azione, ovvero il Francesco Manetti di “A.H.”, per la regia di Antonio Latella, che con la sua StabileMobile intende in quest’opera indagare l’origine del male.
Lo sforzo anche fisico dell’attore, vero fulcro del lavoro e dello sguardo, non sembra forse ricompensato in profondità di pensiero dal senso del lavoro, che spazia da pur interessanti e dotte nozioni inerenti la Thorà, fino a sgualciti concetti presi dalla Arendt, in un impasto forse più complicato che complesso.
Effetto, questo, che a tratti può essere presente anche in un altro spettacolo forse più nelle corde di chi scrive, “Anne Sexton cleaning the house” dell’intensa Milena Costanzo, in scena qui con il meraviglioso Gianluca De Col.
Per poter entrare nel pieno del lavoro sembrerebbe necessario conoscere bene la Sexton, questione che viene forse erroneamente letta dalla regia come la necessità di fornirci la biografia della poetessa in forma extra-teatrale, da conduzione televisiva di inchiesta.
Questo punto debole dello spettacolo viene però ricompensato da una serie di intuizioni veramente ‘sextoniane’, proprio laddove la bella e maledetta viene lasciata in sottofondo.
Testi ben scritti, dal sapore autobiografico senza perdere quella strana universalità della poesia confessionale, come il bel pezzo di De Col su ‘a chi dare la colpa’ – e se non viene dichiarato ‘colpa di cosa’ pure tutti sanno della necessità di un colpevole per questo nostro mondo incurante.
Tra alti e bassi di intuizioni illuminanti, immagini liriche, talvolta cadute di tono, sembrerebbe non potersi dire questa opera del tutto completa – ma pure ha in sé semi del vero teatro, e a tratti commuove.