Stefano Cordella (Oyes): “Non mi spaventa ripensare il rapporto col pubblico e lo spazio”

Stefano Cordella in scena
Stefano Cordella in scena

Terminiamo le nostre interviste con i registi emergenti del teatro italiano in tempi di Covid-19 con Stefano Cordella, cofondatore della compagnia Oyes con cui si fa notare per una felice trasposizione di “Zio Vanja” di Anton Cechov, con cui vince numerosi premi (Premio Giovani Realtà del Teatro 2015, Bando Next 2016, finalista Inbox 2017, menzione speciale alla drammaturgia festival Inventaria 2016).
In seguito, ancora visitando il drammaturgo russo, ecco “Io non sono un Gabbiano” (vincitore Bando Next 2017) che debutta a Primavera dei Teatri 2017 per poi venire inserito nella stagione 18/19 del Piccolo Teatro di Milano.

Cordella è stato assistente alla regia di Carmelo Rifici (“Il Compromesso”), Ferdinando Bruni e Francesco Frongia (“L’ignorante e il Folle”, “La Tempesta”) e Bruno Fornasari (“Sospetti”). Ha intrapreso un percorso di formazione sulla drammaturgia shakespeariana con il regista Declan Donnellan presso la Biennale del Teatro di Venezia. Dal 2013 è direttore artistico del Teatro di Nova Milanese. Ed è finalista al Premio Hystrio alla Vocazione 2014.
Nel dicembre 2015 vince il Festival Internazionale di Regia Teatrale “Fantasio” da cui nasce lo spettacolo “Lo Soffia il Cielo” (dai testi di Massimo Sgorbani), produzione TrentoSpettacoli.
Con Oyes vince il premio Hystrio 2018 come migliore compagnia emergente italiana.

Cosa potremmo imparare dalla situazione che stiamo vivendo?
Credo che questo periodo, in cui siamo tutti obbligati a fermarci, a rivedere i nostri piani e le nostre priorità, sia un’occasione unica per riscoprire la spinta più sana e genuina che ci ha portato a scegliere questo lavoro. Ripartire sarà strano: l’inquietudine che ci sta attraversando dobbiamo tenercela stretta, sarà la benzina creativa dei futuri progetti.
Non mi spaventa dover ripensare il rapporto con il pubblico e con lo spazio, sarà una nuova sfida con cui confrontarsi, e che nasce da una vera necessità e non da un vezzo stilistico. Quando ritorneremo in sala prove (e il solo pensiero mi fa venire i brividi, quelli belli, da prima volta) dovremo essere ancora più consapevoli del nostro ruolo nella società.
Non credo a chi dice che le persone avranno più paura di stare insieme, di tornare in “contatto”.
I rapporti umani cambieranno in meglio, ne sono certo. Tutto sarà dato meno per scontato, ci prenderemo il tempo per guardarci davvero. E l’errore più grande, imperdonabile, che non dobbiamo assolutamente commettere, è quello di chiuderci nuovamente nel nostro piccolo, minuscolo guscio autoreferenziale, in cui l’unica cosa importante ci sembra quella che stiamo creando, e tutto il resto smette di esistere.
Ciò di cui sentiamo la mancanza oggi (non solo il teatro) deve diventare linfa vitale per i nostri progetti futuri. Mi immagino un pubblico più esigente nel pretendere onestà dalla storie che sceglieremo di raccontare.

Tre parole che hanno cambiato di significato.
Spettacolo dal vivo: in questi giorni tutto ciò che è “dal vivo” ci sembra lontanissimo. Nel primo periodo di ritorno alla socialità vivremo alcune importanti limitazioni nella fruizione live, che modificheranno sia la proposta artistica che la percezione di chi guarda, di chi partecipa. Quando ricominceremo a “toccarci” mi auguro che lo spettacolo dal vivo possa risorgere con forme nuove, frutto anche del lavoro che noi artisti e operatori culturali porteremo avanti in questo periodo di stop forzato.
Contaminazione artistica: sarà inevitabile confrontarsi con nuovi strumenti di mediazione artistica. Anche i più “reazionari” probabilmente scopriranno con maggiore consapevolezza le potenzialità e i limiti delle nuove tecnologie. Allo stesso tempo si attiverà un confronto più intenso con le arti di strada. Tutte azioni già esistenti prima del Covid, ma che ora coinvolgeranno tutta o quasi la comunità artistica. La collaborazione tra artisti di diversa natura sarà la strada principale da percorrere per uscire dalla crisi. E forse troveremo un’altra parola al posto di “contaminazione”…
Essenziale: se il processo potrà contare su strumenti nuovi più o meno tecnologici, il risultato dovrà essere il più essenziale possibile. Credo che sia artisti che spettatori per un po’ sentiranno il bisogno di un “contatto diretto” senza perdersi in eccessivi formalismi e intellettualismi.
Corona (bonus track): l’effetto della parola corona nei primi mesi sarà simile a quando il pubblico ride per una parolaccia…

Cosa pensi di un tuo spettacolo proposto in streaming?
Sono terribili i nostri spettacoli in video. Non li consiglierei a nessuno!
Capisco le buone intenzioni di chi li propone, ma credo sia un’arma a doppio taglio. Un buon compromesso potrebbe essere fare una selezione: scegliere UNO spettacolo da proporre in streaming, il più significativo, abbinando alla visione una narrazione, un racconto di qualche aneddoto legato a quel progetto.

Quali misure auspicheresti per la tua compagnia per aiutarla dopo questa emergenza?
Questa crisi colpisce tutti ma maggiormente le giovani compagnie e le piccole imprese. La mia paura è che i teatri riducano il numero di produzioni, smettendo di sostenere le compagnie che non garantiscono un forte richiamo commerciale. Anche gli spazi di ospitalità potrebbero diminuire, perché i teatri punteranno tutto sulle loro produzioni di repertorio e sugli scambi.
Bisogna tutelare le piccole imprese con fondi per incentivare i teatri a sostenere compagnie indipendenti garantendone la circuitazione. Il ministero dovrebbe inoltre obbligare tutti i teatri a istituire uno spazio in stagione dedicato alle compagnie emergenti (con condizioni economiche dignitose e sostenibili per le compagnie stesse).
C’è bisogno di cambiare totalmente le logiche produttive, incentivare la ricerca investendo su un numero maggiore di giornate di prova magari spalmate su tutto l’anno. Prevedere aperture e incontri con operatori e pubblico. Fare sì che il processo diventi parte dello spettacolo stesso. Non pensare più allo spettacolo come un allestimento statico, ma aprire al confronto con altri artisti che possono contaminare e arricchire il percorso. Pensare allo spettacolo come a un grande festival a tema che coinvolge tutti i partecipanti e si arricchisce nel tempo di continui stimoli sociali e intimi, in continuo dialogo con ciò che ci accade attorno.

Immagina in poche righe un Amleto contemporaneo che deve combattere non con lo zio ma con il Coronavirus.
Amleto, dopo la morte del padre, va a vivere da solo in un monolocale perché non riesce ad accettare che la madre stia insieme allo zio. Scatta la pandemia e tutti sono costretti in quarantena. Amleto prova a convincere Ofelia a fare sexting ma lei non la prende bene e lo blocca su whatsapp. Amleto va in depressione e comincia ad avere il dubbio che questa vita non abbia poi così tanto senso. Mangia male, fuma tanto (fumo regalato dagli amici Rosencratz e Guildenstern), beve tanto. Si lascia andare.
Si addormenta sul divano e sogna lo spirito del padre, che gli racconta del tradimento dello zio. Si sveglia di colpo, sudato, ed esce di casa in pigiama e ciabatte. E’ poco lucido. Comincia a camminare per la città in direzione della casa della madre. Sulla strada incontra un uomo con la mascherina che gli si avvicina. Crede sia una guardia che vuole multarlo per aver violato le restrizioni. Lo prende a testate fino ad ucciderlo. Era Polonio, anche lui ubriaco e in cerca disperata di una prostituta.
Suona il telefono di Polonio. Risponde Amleto. E’ Ofelia. Amleto la implora di perdonarlo. Lei non capisce. Lui urla che la ama da morire ma che aveva bisogno di lei in questo momento difficile e quindi un po’ la odia e non vuole mai più vederla. Prima di mettere giù confessa di aver ucciso suo padre, per sbaglio. Ofelia impazzisce dal dolore e si taglie le vene nella vasca da bagno.
Gonfio di rabbia, Amleto arriva a casa della madre convinto di uccidere lo zio con le sue stesse mani. Entra urlando, è fuori di sé. Trova la madre sul letto in preda a una crisi respiratoria e con la febbre alta. Lo zio non c’è. Amleto non sa cosa fare. E’ immobilizzato. La madre sta per morire davanti ai suoi occhi. Ma prima lo chiama con il nomignolo di quando era piccolo e gli sorride. Amleto smette di piangere. La fissa. Lungo silenzio. Si avvicina al letto. Prende la mano della madre e appoggia la testa sul suo seno. Pensa a un monologo ma non lo dice. Chiude gli occhi. Una luce arancione entra dalla finestra. Musica (“Abbracciami fortissimo” di Tricarico). Buio.

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