È di nuovo un uomo libero, Jean-Claude Romand. Dopo ventisei anni di detenzione, lo scorso 28 giugno è stato scarcerato.
Il suo caso sconvolse la Francia nel 1993, quando uccise la moglie, i due figli e i propri genitori. Preferì sbarazzarsene, piuttosto che affrontarne lo sguardo dopo aver accumulato 18 anni di debiti e menzogne.
Le bugie sono come le ciliegie, una tira l’altra. La prima volta Romand era iscritto al secondo anno di Medicina. Finse di aver superato esami mai sostenuti. Nessuno s’insospettì. Per lui fu un’autorizzazione a procedere: finto laureato, finto medico, finto ricercatore dell’Oms a Ginevra. Proveniva da una famiglia borghese dallo stile perbenista. All’esterno ogni cosa doveva apparire perfetta. I panni sporchi si lavavano in casa.
Ma Romand non si sentiva all’altezza, neppure in famiglia. Frustrato, da ragazzo aveva solo un cane con cui sfogarsi. Da adulto, bugia dopo bugia, Romand divenne un uomo stimato da tutti: gran lavoratore, ottimo padre.
Era anche ricchissimo. Grazie alla vendita dell’appartamento degli anni universitari a Lione, millantò un’agiatezza che sedusse parenti e amici. Essi ne riconducevano il tenore di vita ai tassi d’interesse di cui lui diceva di beneficiare come funzionario Oms. Automobili e alberghi di lusso, abiti firmati, cene sontuose. In tanti provavano a emulare la sagacia di Romand affidandogli i risparmi di una vita. Egli, sagacemente, li tratteneva per sé.
Ogni mattina Romand usciva da casa vestito di tutto punto. Passava le proprie giornate a contemplare il cielo da una panchina o il soffitto in una camera d’albergo. Poi rientrava, ed era l’orgoglio della moglie e dei figli.
Quando il castello di menzogne si sbriciolò, Romand non esitò a uccidere.
Questa storia estrema, raccontata nel romanzo “L’avversario” da Emmanuel Carrère, ha fornito l’occasione a Invisibile Kollettivo, compagnia di attori ancora giovani ma navigati (Nicola Bortolotti, Lorenzo Fontana, Alessandro Mor, Franca Penone, Elena Russo Arman) di farne una lettura scenica. Lettura, e non adattamento, per affermare la centralità del libro, romanzo tra giallo e psicanalisi.
Eppure definire questo lavoro “lettura scenica” è riduttivo. Il libro è solo un ingrediente scenico. Le occasioni in cui viene letto sono rare. Il libro è appiglio per soluzioni registiche e coreografiche. Come quando gli affiatati attori ne riproducono in modo volutamente didascalico i movimenti narrati. Oppure, tenendolo in mano, creano un paio di siparietti danzanti. E assumono pose graffianti, smorfie farsesche, in un mix di frenesia, rabbia e nevrosi.
Sul palco nero senza fondale, poche cianfrusaglie. Quattro riflettori amplificano un senso di disordine. Una realtà a brandelli va ricomposta. Roberta Faiolo orchestra luci mendaci che indagano il buio, il vuoto, il nulla. Inizialmente lambiscono la platea, a inchiodarci a un tema universale. Chi di noi è senza bugia scagli la prima sentenza.
Gli attori ricompongono la realtà a puzzle sotto forma di foto, ricordi, immagini. La bugia è un patto sopito tra ingannatore e ingannato. Mascherati per rimuovere, proiettare, eludere il marciume. Illudendoci di rinsaldare le certezze di pastafrolla cui siamo aggrappati.
Sotto la maschera, niente. «La realtà non è mai come la si vede. La realtà è soprattutto immaginazione». La verità è una sagoma evanescente, come i soggetti di Magritte.
Qui forse l’unico essere autentico è Niki, un cane che attraversa il palco. Poi vediamo sacchetti di plastica, manichini come teste di De Chirico, grucce come scheletri. Dei telefoni squillano, ma i fili sono staccati. E ancora uno schermo, stralci della deposizione fuori campo di Romand, fasci di luci che creano passerelle nel buio imperante. La realtà è una pioggia di fogli di carta bianca.
Un personaggio tragicamente pirandelliano, incapace di costruire la propria identità. Un fatto angosciante di cronaca per indagare l’uomo e le sue fragilità. Una giustapposizione di linguaggi perfettamente padroneggiati dagli attori. Una stratificazione di riflessioni.
Attraverso gli inganni, facciamo da scudo alla nostra incapacità di essere. Diventiamo come le nostre bugie. A volte siamo lo sguardo che gli altri posano su di noi. Ma che cosa cambia quando quello sguardo si modifica? Quale immagine ci restituisce lo specchio?
“L’avversario”, produzione Teatro dell’Elfo con il sostegno di Emilia Romagna Teatro, invita a scrutare dentro gli occhi in profondità, di là dalle apparenze. Per interrogarsi sul nodo che può trasformarci persino in belve.
L’interesse non è sull’epilogo cruento, ma sul tema dell’identità frammentata, per un lavoro analitico capace di smuovere lo sguardo, ben confezionato, con una posizione etica, senza verdetti né moralismi.
L’AVVERSARIO
di Emmanuel Carrère
traduzione: Eliana Vicari Fabris
luci: Roberta Faiolo
suono: Giuseppe Marzoli
una lettura scenica di Invisibile Kollettivo: Nicola Bortolotti, Lorenzo Fontana, Alessandro Mor, Franca Penone, Elena Russo Arman
produzione Teatro dell’Elfo con il sostegno di Emilia Romagna Teatro
durata: 1h 10’
applausi del pubblico: 3’
Visto a Milano, Teatro Elfo Puccini, il 26 giugno 2019