Arriveranno a Torino questo fine settimana con “T/Empio”, ospiti nella stagione del Cubo, ma c’è un altro progetto di grande interesse che li aspetta dall’altro capo della penisola, nella loro città natale. L’8, il 10 e 12 aprile, a Messina, in tre luoghi diversi e significativi della città siciliana, verranno rappresentati altrettanti spettacoli della compagnia Carullo-Minasi.
Gli abitanti di Messina potranno assistere in sequenza a “Due passi sono”, che ha vinto il Premio Scenario per Ustica nel 2011, il Premio In box 2012 e il Premio Internazionale Teresa Pomodoro 2013 e che ha proiettato la compagnia formata da Giuseppe Carullo e Cristiana Minasi tra i gruppi più significativi del teatro italiano contemporaneo; “T/Empio”, vincitore due anni fa del bando dei Teatri del Sacro, e “Conferenza Tragicheffimera” presentato con successo nell’estate 2013 al Museo Madre di Napoli, quale Vincitore del E45 Napoli Fringe Festival.
Le tre opere verranno rappresentate, nell’ambito della stagione dello Stabile di Messina, in altrettanti luoghi fortemente simbolici della città: sul palco del grande Teatro Vittorio Emanuele, in Tribunale, dinnanzi alla Porta della Corte d’Assise, e all’ex Manicomio Mandalari.
Per la prima volta in Italia la compagnia che ha scelto la sua città di provenienza per proporre l’evento, presenta dunque uno dopo l’altro tutte le sue creazioni che nel proporre la propria cifra stilistica li ha definiti “Trilogia sul Limite” in un progetto esclusivo di superamento di temi, luoghi e linguaggi.
Abbiamo incontrato Cristiana Minasi e Giuseppe Carullo per approfondire meglio il progetto che accomuna i tre spettacoli e le ragioni per cui vengono presentati insieme.
La “Trilogia sul Limite” andrà in scena in tre luoghi diversi della vostra città. Perché la scelta di questi luoghi?
Il progetto e la sua relativa ideazione intende essere una scommessa ed un’opportunità non solo per noi, ma in realtà per la città tutta, intendendo coinvolgere nella sua totalità attori e pubblico, come ipotizzando una città quale “Teatro unico”, sanando ogni frattura e mettendo in comunicazione istituzioni significative come teatro, tribunale e manicomio, spesso troppo lontane tra loro e poco abitate nelle loro funzioni prime di aggregazione e partecipazione.
Sarà un’opera teatrale urbana, la nostra, che si avvarrà di linguaggi trasversali con, ad accompagnamento di ciascuna delle opere, gli esclusivi interventi del docente di Sociologia Urbana Pierpaolo Zampieri e dello Storico dell’Arte Mosè Previti, in un percorso innovativo volto all’inclusione e al superamento d’ogni soglia.
Al Teatro Stabile il pubblico sarà invitato sul palco, infrangendo così la barriera istituzionale tra spettatore e attore, in Tribunale nel foyer d’entrata dinnanzi alla porta della Corte d’assise e all’ex manicomio Mandalari presso il centro diurno di salute mentale Camelot. Il nostro vuole essere un abbraccio culturale dello spazio cittadino: una de-costruzione del concetto di teatro nella logica di una ri-contestualizzazione dell’arte nel mondo. Un teatro itinerante che giunge nei luoghi della socialità, che costringe alla consapevolezza dell’assurdo, ma anche del passaggio successivo: la scelta di autenticità; la rivelazione dell’arte come potenziale arricchimento della società, come atto di liberazione. “Il vero Teatro è dove si raccoglie la gente”, dove si racconta una storia, è il teatro che sfugge dai luoghi precostituiti, dall’esibizione tronfia e si va ad insediare là dove può cambiare le coscienze.
Avete chiamato il progetto “Trilogia sul limite”: in che accezione usate questa parola?
Riteniamo che prima che artisti si sia persone, e che solo tramite un confronto sincero con la propria miseria e precarietà ci si possa avvicinare ai temi dell’arte, dunque della vita. Intendiamo il limite quale risorsa drammaturgico-creativa per la definizione di qualsivoglia atto d’arte: la consapevolezza del limite diviene pretesto per il suo superamento. La presa di coscienza dell’assurdo dell’esistenza e della contingenza non scade in una disperazione paralizzante, ma si eleva all’affermazione della vita, nella sua complessità e gratuità. Il limite diventa così risorsa propulsiva, atto politico-democratico: mentre le cose sono ciò che sono, l’uomo è ciò che progetta di essere, perennemente in gioco nell’alternativa tra il conquistarsi pienamente ed il perdersi definitivamente, per cui il limite con cui ci confrontiamo diventa soglia, spartiacque tra l’una e l’altra condizione.
Il fondamento della scelta è l’impegno e, nel suo essere nel mondo e nel suo essere con gli altri, l’uomo deve prendersi cura di ciò che lo circonda: progettare il mondo. La scelta dunque non può più essere una scelta miope, solipsistica, ma deve per forza di cose essere una scelta impegnata, radicale, volta al superamento d’ogni frattura, allo sconfinamento in una dimensione altra dentro la quale tutto è veramente possibile, anche l’avverarsi di un sogno: una Città che diventa Vero Teatro per i suoi cittadini. Il nostro progetto giunge, itinerante, nei luoghi della socialità, nelle sue istituzioni, perché ritrovino la loro funzione aggregante: l’esigenza di una partecipazione; la scelta di autenticità; la rivelazione dell’arte come potenziale arricchimento della società, come atto di liberazione.
Cerchiamo di approfondire i tre spettacoli nel loro rapporto con il limite. In “Due passi sono”, per esempio, i due protagonisti interpretano il limite come una sfida che riusciranno a vincere. Com’è nata quest’opera?
Tramite la difficoltà in cui ci siamo trovati immersi per un lungo periodo di convalescenza, abbiamo raccontato l’indescrivibile forza di cui è portatore l’uomo: il limite, dunque, si è tradotto in un esercizio di resistenza, reinventando i normali canoni dell’esistenza, nonostante l’apparente impossibilità, nonostante le poche forze rimaste. Siamo arrivati ad un risultato solo dopo aver accettato la finitezza del nostro essere, finalmente in ascolto dei nostri più semplici desideri che ci hanno consentito di reimparare la vita. L’amore, quale reciproco prendersi cura, ha preso il posto della difficoltà.
Possiamo vedere “Due passi sono” come una sorta di riscatto di un’intera generazione, messa troppo sotto campana, destinata a morire prima ancora di avere cominciato a vivere?
E’ come fosse un “Romeo e Giulietta” al contrario, una vera sfida di celebrazione dell’amore nella vita e non nella morte. Abbiamo voluto, tra le righe della poesia, farci portavoce di una generazione presa dai tarli cui è preclusa la possibilità di realizzare, con onestà e senza compromessi, le proprie ambizioni. Abbiamo sfidato il mito e celebrato il lieto fine nella vita, o quantomeno nella speranza della stessa, e non nella morte. E’ il nostro abbandono al sogno della vita vera, nella sua purezza, nella sua piena sacralità.
In “T/Empio – critica della ragion giusta”, tratto dall’Eutifrone di Platone, v’è una presa di posizione sui luoghi sacri della ricerca della verità, primo fra tutti il Palazzo di Giustizia. Quale il limite su cui avete lavorato ai fini della scrittura di tale opera?
Lo spettacolo è nato avviando uno studio di analisi sul Giusto ma, riconoscendo l’evidente limite di una sua possibile unica definizione, ha acquisito il paradosso quale elemento di valore drammaturgico, riconoscendo “Giusta” solo la sua stessa ricerca.
E’ uno spettacolo che “processa” le parole, che apre il “Giusto” ad un’immagine inattesa di sé, opposta al senso comune, al pregiudizio, al comodo svuotamento di senso di una società, quale la nostra, volta alla acritica conoscenza di ciò che gli arriva come già dato.
Nella messa in scena due uomini, in attesa di un giudizio che reciprocamente li attende, si “incontrano” non nell’aula di un tribunale – spesso burocratico Tempio della conferma dell’Empio – ma sui gradini di una scalinata, lì dove, secondo corretto processo di analisi delle parole, compiono realmente il rito dell’azione processuale. La Giustizia dea è divenuta Giustizia macchina, il suo tempio è ora una fabbrica labirinto, dove i valori fondanti sono posti fuori dall’umanità e gli esseri umani si aggirano affannosamente, per anni, rimpallati dagli artifici di un diritto liquido e incerto, in cerca di un salvifico filo d’Arianna.
E’ un’opera che celebra il processare, il dubbio o, forse, il percorso dell’esistenza volta a finire con l’incertezza più grande: la morte.
Completa la Trilogia “Conferenza tragicheffimera – sui concetti ingannevoli dell’arte”, lì dove la difficoltà diventa nuovamente risorsa per il ritrovamento di una personale e “poco burocratica” direzione di vita.
Partendo dalla crisi economica della società contemporanea, una donna gioca sulla sua identità, riconoscendosi vera attrice e protagonista della propria esistenza solo nel momento in cui prende coscienza del proprio sé, prescindendo da ogni inganno ed orpello.
L’attrice – schiacciata da un paio di ali troppo pesanti e troppo piene di significato – proprio partendo dal limite in cui si ritrova immersa, si sveste dal ruolo e diviene donna, riconoscendo la sua esclusività e ritrovando il suo vero verso. E’ conferenza sul superamento d’ogni “gravità” contemporanea, concetto ingannevole costruito dall’uomo contro l’uomo, pronto ad escludere ogni possibile ascesa. E’ manifesto d’arte, è manifesto di vita, è lezione di volo democratico. Lo spettacolo rielabora in forma di conferenza tragicomica “La situazione dell’artista” tratta da “Il Teatro della Morte” di Kantor riconoscendo che compito primo dell’artista è quello di ridestare l’umano che è in ognuno di noi: l’artista non è certo un eroe, ma il suo pregio esclusivo risiede proprio nel porsi di fronte la paura del separarsi dal limite, del superarlo, e mostrarci che lo slancio verso un ‘topos’ il-limitato è sempre possibile e necessario. Se pochi sono coloro che indossano le ali, sempre più numerosi sono coloro che lo desiderano. L’artista rievoca questo desiderio e lo affida agli scaffali della nostra anima, affinché ciascuno ri-trovi personalmente lo slancio per affrancarlo.
Come mai avete scelto di realizzare quest’ultimo spettacolo in un centro diurno di salute mentale, ex manicomio della città?
Alle pendici di Messina, prima di salire i colli, in un quartiere che per destino di sorte prende la denominazione di “Giostra”, c’è il primo quartiere popolare, il primo quartiere di baracche, il primo quartiere escluso dal teatro urbano. A sigillare questo processo c’è il luogo per eccellenza dell’esclusione, cioè il manicomio.
L’Occidente è stata l’unica cultura che ha pensato di creare un luogo apposito per i malati mentali. Questo è il quartiere Giostra: il quartiere più popoloso nonché il grande escluso della città di Messina. E come se non bastasse il quartiere escluso, a sua volta, racchiude al suo interno il luogo simbolo dell’esclusione.
Se, come dice Pierpaolo Zampieri, “l’architettura è frutto del pensiero”, allora siamo proprio alla sintesi del pensiero moderno: un pensiero straniante e respingente, che alza muri e costruisce barriere: un pensiero che dissemina, lungo la strada sconnessa della vita, una miriade di “limiti”.
E’ da qui che nasce la nostra volontà di installare lo spettacolo in tale luogo, come fossimo tutti ospiti di un mondo meravigliosamente schizofrenico-disorganizzato, pieno di vita estrema in un percorso tra le opere del visionario Chiarenza, ex ospite dell’ospedale psichiatrico.
Quali sono i progetti futuri della compagnia?
La nostra prossima produzione sarà “Il Copernico – de rivolutionibus”, un dialogo sulla miseria del genere umano tratto dalle “Operette Morali” di Leopardi. Vincitori, per la seconda volta, del bando di Teatri del Sacro, debutteremo in prima nazionale al festival di Lucca tra l’8 e il 14 giugno, orgogliosi di essere insieme ad altre compagnie di altissimo spessore artistico e morale.