Pau Mirò ‘Chiòve’ a Napoli: fotografia di un triangolo (quasi) senza speranza

Chiòve
Chiòve
Chiòve (photo: Fabio Esposito)

Ripartiamo dal testo, dalla parola, in questo caso dal dialetto. Il titolo di questo spettacolo diretto da Francesco Saponaro è perfetto: “Chiòve”. Una parola che contiene ogni indicazione, dal vernacolo usato all’atmosfera. Il resto lo racconteranno i tre attori in scena. Il testo del drammaturgo-rivelazione catalano Pau Mirò, che in originale suona come “Llueve en Barcelona”, viene trattato con estrema eleganza da Enrico Ianniello, che ne ricava un adattamento perfettamente funzionante.

La vicenda della prostituta Lali, del suo compagno e protettore Carlo e del cliente Davide viene scaraventata dalle ramblas barcellonesi ai quartieri spagnoli di Napoli, disegnando a matita una rete di sguardi, silenzi e piccole speranze e mettendo quello stesso disegno sotto la pioggia paventata già nel titolo.

Lali – interpretata dalla luminosa Chiara Baffi, rivelazione ai premi Ubu 2009 – è costretta a vendere il proprio corpo per portare a casa il pane necessario a lei e all’inetto compagno Carlo (efficace Giovanni Ludeno), che si guarda vivere e fa da protettore geloso, soprattutto quando il bell’intellettuale Davide (Ianniello stesso, a proprio agio nella parte) si mette in testa di far da precettore alla piccola ignorante e candida Lali, che sogna d’essere normale.

La regia, grazie alle scene di Roberto Crea e alle luci di Lucio Sabatino, incornicia i tre in un malandato e iperrealista interno napoletano, tra tubi arrugginiti bene in vista, poltrone sfondate e un’emblematica cola da discount.
È una fotografia squallida della lotta per la sopravvivenza, un reportage attento soprattutto alle pause, ai silenzi, alle inflessioni. Baffi e Ludeno danno il meglio nei lunghi intervalli: lui è continuamente sul ciglio dell’abisso della depressione, attaccato morbosamente e pericolosamente a una lametta usa e getta, con cui si tira a lucido la rasatura e troppo spesso finisce per tagliarsi. Perennemente attenta, lei, a non perdere i particolari, tra la registrazione entusiasta della presenza di un gabbiano al metodico disordine sul quale lui tenta di riportare un controllo.
Ma l’immagine più fedele di quel controllo, l’ultimo rimasuglio, finirà per essere la religiosa attenzione con cui Carlo conserva i bigliettini dei Baci Perugina regalati da Davide. Quelle frasi marmoree, come epitaffi sintetici, effimeri nella loro trasparenza, vanno a tracciare inesorabilmente il percorso di un amore mai sufficiente. Come dire che l’immagine della felicità invecchia poco a poco, si ammala e va a morire da sola, scade e marcisce come il latte nel frigo.
Lali fa di tutto per restare con Carlo, ma il suo è un grido lanciato alla ricerca di una normalità mai ancora conquistata, una convenzionalità algida come un sogno borghese, sul quale Davide, con la sua libreria di successo, i suoi aforismi colti e la moglie morente, promette di affacciare un balcone. Carlo, il candido Carlo, l’amorevole Carlo, il buon vecchio Carlo. Ma Carlo il perdente, che nell’elenco delle “frenesie quotidiane” raccomandate da Baudelaire nei “Fiori del male” ci infila il gusto del cheeseburger di McDonald’s. Lali che vorrebbe poter uscire così com’è, senza bisogno di autoreggenti, zeppe e parrucca ‘valentina-di-crepax’ arruffata sopra il trucco esagerato. Lali che crede che diventare una cassiera del supermercato sia il primo passo verso la luce.

L’atmosfera è cadente e decadente, umida e fangosa come una pozzanghera all’angolo della strada, accanto a un secchio dell’immondizia quando, appunto, piove da troppo tempo. Se quel gabbiano fuori dalla finestra sia un richiamo a Čechov poco importa, fa il proprio dovere drammaturgico di unico essere vivente esterno al triangolo.
Quel che a volte manca per un equilibrio perfetto è la forma poetica propria del teatro, quella in grado di riorganizzare lo spazio e dargli forma anche senza bisogno di una realtà totale. Saponaro, che era stato ingegnoso, ad esempio, nel pensare lo spazio di “A causa mia” a Napoli 2008, qui sembra non voler sfruttare queste potenzialità, lasciando in scena un filmato inaccessibile, stringendo lo spettatore in una morsa che di per sé funziona, ma che scopre il fianco a difetti d’attenzione, rischio sempre in agguato in una fissità frontale da quarta parete.
Il binomio Mirò-Ianniello riesce dolce ed efficace, spinge sul pedale della tenerezza neorealista nel ritrarre soprattutto il candore di Lali, dietro al quale Baffi riesce a nascondere una sofferenza reale, la fragilità di un fiore appena colto, destinato a morire se non viene trapiantato in fretta.
Il lavoro sul dialetto napoletano di Baffi e Ludeno è notevole, Saponaro monta alcuni scambi come se fosse davvero indifferente comprendere le parole, tanto è piena la scena di particolari e gesti. A volte ci sentiamo di fronte al recinto di una simpatica specie di scimmie, le vediamo giocare, spulciarsi e comunicare in un codice segreto. Peccato che siamo pur sempre allo zoo, la savana è lontana. E ci sentiamo dei carcerieri senza possibilità di intervenire.

CHIÒVE
di Pau Mirò
traduzione: Enrico Ianniello
spazio e regia: Francesco Saponaro
con: Chiara Baffi, Enrico Ianniello, Giovanni Ludeno
scene: Roberto Crea
luci: Lucio Sabatino
costumi: Roberta Nicodemo
suono: Daghi Rondanini
produzione: Teatri Uniti, Teatro Festival Italia, O.T.C. Teatro Garibaldi, Dogma Televisivo
durata: 1 h 15’
applausi del pubblico: 2’

Visto a Roma, Teatro India, il 9 giugno 2009

0 replies on “Pau Mirò ‘Chiòve’ a Napoli: fotografia di un triangolo (quasi) senza speranza”
Leave a comment

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *