Der Park. Stein e Shakespeare nel labirinto di Botho Strauss

Der Park (photo: teatrodiroma.net)
Der Park (photo: teatrodiroma.net)
Der Park (photo: teatrodiroma.net)

Sinfonia e labirinto. Sono questi i significanti a cui Antonio Calbi, tredicesimo direttore del Teatro di Roma, si affida e sviluppa nella sala Squarzina del Teatro Argentina per introdurre quello che definisce il triplo sogno di Shakespeare, Botho Strauss e Peter Stein.

“Der Park”, nessuno lo nasconde, è la produzione maggiore di questa sua prima stagione al Teatro di Roma, stagione dai grandi numeri nonostante il periodo di profonda crisi. La Sala Squarzina diventa così luogo di formazione del pubblico che si prepara alla visione onirica nella quale Strauss e Stein ci lasciano sprofondare, e dalla quale ci si risveglia affascinati e storditi cercando di ricostruire poi, a posteriori, cosa sia realmente accaduto.

Stein si presenta nelle vesti dell’ultimo, in ordine di tempo, illustre regista di un metatesto che, come in un sogno lucido, l’Europa continua a percorrere. Da Shakespeare a Strauss, dal bosco di Atene al parco di Tiegarten, da Berlino a Roma. Del resto “Der Park” è una tragicommedia che Botho Strauss aveva scritto appositamente per Stein nell’83.

Dopo un trentennio dalla Berlino Est ed Ovest, dal collettivo della Schaubühne e dal debutto del testo che Strauss aveva costruito su misura per l’ensemble diretta da uno dei maestri della scena del nostro tempo, questa modalità – insolita in Italia – di fare teatro debutta all’Argentina come primo atto del progetto di lungo respiro Prospettiva Stein.

Non a caso, dunque, si parte con un testo caratterizzato dalla commistione tra realtà e sogno.
Lo spettacolo si apre con un enorme sipario sullo sfondo dal quale è uscita Helen, moderna Ermia e trapezista scivolata durante il suo numero, così come è scivolata dalla penna di Shakespeare a quella di Strauss, portando con sé ciò che resta del “Sogno di una notte di mezza estate”.

È dal testo di Shakespeare che parte Strauss per scrivere “Der Park”, ambientando e confinando la parte centrale del “sogno” in un parco di Berlino, dove Oberon e Titania tornano per rimettere in contatto gli uomini con la loro parte pulsionale, con la passione erotica, e dove le vicende dei quattro innamorati sono rovesciate dagli amuleti di Cyprian, simboli di una magia che durerà però ben poco, mercificata e resa miniatura di sé stessa. Il sogno diventa ben presto incubo, tormentato dai rumori della città tra i quali si sente l’eco dell’evocativo zoo di Berlino, mentre agli schiamazzi di un gruppo di giovani punk e al loro linguaggio gergale è affidata la goffa ribellione di oggi e di allora.

In più di trenta scene che si montano a vista, in uno spazio che alterna i complessi impianti visivi di Ferdinand Woegerbauer a un sottile gioco di vuoti, lo spettacolo svela il teatro davanti ai nostri occhi, in una stratificazione di significati tra il mito e un’arida contemporaneità, che riconosciamo con la consapevolezza di trovarci oggi nello sguardo profetico di Strauss, e con l’incubo di vivere la vacuità delle due coppie borghesi con cui la morte convive in silenzio.

Lo spettacolo non è semplice, a tratti ci si perde, come in sogno, per poi ritrovarsi nella geografia onirica che collega Shakespeare al mito. Come sottolinea Maddalena Crippa nel prezioso incontro con la compagnia, “il teatro che serve il testo: è questo il grande lavoro di Stein, ma costruendo l’azione scenica in modo che sia intellegibile per il pubblico; dunque attenzione sì per il testo ma allo stesso tempo per il palcoscenico”. Interprete, quest’ultima, di una Titania nuda e dalla sessualità esasperata all’inizio diventerà poi Pasifae punita e innamorata di un toro con cui darà alla luce un Minotauro.

Il tentativo di riportare l’amore agli uomini fallisce e Oberon invecchia, blatera, si adegua alla società in cui è finito; cambia addirittura nome, Mittentzwei, “spezzato in due”. Con lui si spezza in due lo spettacolo, l’incantesimo.

La seconda parte di quest’enorme impianto visionario è il risveglio. I personaggi si affievoliscono, si spersonalizzano, si arrendono, la passione amorosa cede il passo all’amor di patria, gli uomini non hanno più il coraggio nemmeno di sfidarsi per una donna; le coppie di innamorati si ritrovano ma non si ameranno più, lo spettacolo stesso invecchia, si arrende, si prepara al commiato borghese da ogni sogno.

Quando il ritmo e il potere evocativo calano la ricerca di Peter Stein rimane visibile nella potenza degli interpreti; è Pia Lanciotti a svelarci come “Stein con grande pazienza ha costruito lo scheletro esterno del personaggio, per poi lasciarmelo riempire con la mia inquietudine e la mia rabbia, sostenute però da un’impostazione di pensiero per farle arrivare al pubblico. Peter parte dallo scheletro, dalla parola, e con una costruzione dall’esterno mi ha permesso di arrivare al sentimento. Fidandosi mi ha permesso di fidarmi ciecamente”.

“Il lavoro di Stein è per me un meraviglioso, enorme saggio fantastico sul teatro” chiosa Paolo Graziosi, camaleontico e rassegnato Oberon.

L’ultimo corridoio di questo labirinto Strauss lo affida al Minotauro, un personaggio che sembra appartenere alla zona lirica più che a quella naturalistica. “Il Minotauro è un monito, se nella vita si sbagliano gli ingredienti o le dosi viene fuori qualcosa di mostruoso, che comunque vive e ha delle emozioni, ma con il quale bisogna poi fare i conti” avverte il suo interprete, un convincente Alessandro Averone.

C’è qualcosa di visionario in tutto ciò, o forse dopo quattro ore di sogno ci si sente liberi di allinearsi totalmente all’evocativo; la realtà economica e culturale con cui stiamo facendo i conti racchiude in sé le proporzioni sbagliate, i lineamenti deformi di un passato mitologico dalle forme greche rimaste incastrate in un parco di Berlino.

La messa in scena di “Der Park” diventa, oggi, soprattutto un progetto politico: segnale di un teatro che si rivolge e forma direttamente la ‘polis’ e ambizione che aspira a riconsegnare progettualità di ricerca a una compagnia di un Teatro Nazionale.
A fine spettacolo si esce dal teatro come dal parco e ci si torna a perdere tra le strade di Roma.
“La poetica di Strauss è rivolta all’oggi, come tempo in cui non si è fatto tesoro di una tradizione”, aveva ricordato Elisabetta Villano nella sala Squarzina durante la sua ‘guida alla visione’. Mai città fu più indicata di Roma. Che il largo di Torre Argentina possa tornare ad essere ‘area sacra’ rigeneratrice di una polis alla quale ormai del suo sogno non le resta che un lontano, deforme, ricordo.
In scena fino al 31 maggio.

DER PARK (IL PARCO)
di Botho Strauss
dal “Sogno” di Shakespeare
traduzione Roberto Menin
regia Peter Stein
con Pia Lanciotti, Graziano Piazza, Silvia Pernarella, Gianluigi Fogacci, Maddalena Crippa, Paolo Graziosi, Fabio Sartor, Andrea Nicolini, Mauro Avogadro, Martin Chishimba, Arianna Di Stefano, Laurence Mazzoni, Michele De Paola, Daniele Santisi, Alessandro Averone, Flavio Scannella, Carlo Bellamio
scene Ferdinand Woegerbauer
costumi Anna Maria Heinreich
musiche originali Massimiliano Gagliardi
disegno luci Joachim Barth

durata: 4h
applausi del pubblico: 2’ 30’’

Visto a Roma, Teatro Argentina, il 6 maggio 2015

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