“Quisieron enterrarnos pero no sabían que éramos semilla”
(“Desaparecidos#43 – Acción Global por Ayotzinapa”)
«Una drammaturgia originale, bilingue, fatta non solo di parole ma anche di azioni fisiche, suoni, canti, immagini che mettono insieme più voci, quelle voci che ancora adesso si uniscono al grido “Todos somos Ayotzinapa!”. Un grido che continua ad animare le piazze delle città messicane e di tutto il mondo, che rimarrà nei graffiti metropolitani […]. Una performance forte, un atto di protesta che si unisce alle azioni dal basso, che sono diventate globali attraverso i social networks, oltrepassando censure e barriere».
Così la compagnia Instabili Vaganti, nel fine settimana in arrivo a Torino all’interno della stagione di Schegge organizzata da Cubo Teatro, presenta la propria creatura, “Desaparecidos#43 – Acción Global por Ayotzinapa”, uno spettacolo carico di storia e di storie, patrocinato dalla sezione italiana di Amnesty International.
Il titolo allude alla drammatica vicenda dei quarantatré studenti di Ayotzinapa scomparsi ad Iguala, in Messico, il 26 settembre 2014: i dettagli sul massacro restano tutt’ora poco chiari. Pare che le vittime (tutti studenti della Escuela Normal Rural Raúl Isidro Burgos di Ayotzinapa), durante un viaggio verso Città del Messico a bordo di tre autobus sequestrati per svolgere un’iniziativa di raccolta fondi, fossero stati intercettati dalla polizia locale, che li attaccò brutalmente provocando la morte di alcuni di loro.
Stando alle varie inchieste, gli altri giovani, sequestrati, vennero consegnati ad esponenti di un noto gruppo criminale della zona, i Guerreros Unidos, e da loro successivamente uccisi. Una tragedia contemporanea che è insieme strazio e speranza, e che andrà in scena sabato 24 e domenica 25 alle ore 21 al Polo del ‘900 di Torino.
La conversazione con Anna Dora Dorno e Nicola Pianzola alla scoperta dei retroscena dello spettacolo è un’occasione per riflettere sullo statuto del teatro (cosiddetto) “civile”.
Ci soccorre in quest’indagine una frase di Ascanio Celestini: «Non vorrei fare il teatro civile, il teatro politico. Vorrei fare un teatro etico, ma non nel senso: noi siamo i buoni! Vorrei un teatro che produca una cittadinanza, che dica: questa è la mia casa». Argomenti che, proprio in questi giorni di campagna elettorale (una delle più ripugnanti della nostra storia repubblicana), assumono un certo qual valore.
La storia “Desaparecidos#43” è cominciata alcuni anni fa. Continuate a raccontarla nelle diverse tappe del vostro “instabile (e indefesso) vagare”.
N. P. – Al momento siamo di ritorno da una settimana di residenza presso La Vilella Teatre di Barcellona, dove abbiamo messo a punto la versione “a tre” dello spettacolo, la stessa che presenteremo anche a Schegge questo fine settimana: in scena, oltre a noi due, anche Armida Peretti.
Definire la “prima” di “Desaparecidos#43” è un’operazione complessa, perché fin dalle origini lo spettacolo si è proposto come una sorta di forum aperto, disponibile alla collaborazione di artisti esterni alla compagnia. Penso ad esempio ai performer messicani con i quali abbiamo lavorato. Il vero debutto si tenne comunque a Roma nel marzo 2015, a pochi mesi di distanza, dunque, dai fatti di Ayotzinapa: sentivamo la necessità di dar corpo ad un’immediata re-azione teatrale, insieme artistica e performativa, mirante a sottolineare la tragica realtà delle sparizioni forzate che purtroppo ancora oggi affliggono Paesi come il Messico.
È degli ultimi giorni, peraltro, la drammatica notizia della scomparsa di tre venditori ambulanti originari di Napoli le cui tracce si sono perse il 31 gennaio scorso…
A. D. D. – Non sappiamo ancora bene che cosa sia accaduto, ma una situazione del genere è estremamente preoccupante. È opportuno riflettere sul fatto che azioni come queste, di tipo repressivo, restano di norma impunite. Sulle falle, poi, della diplomazia internazionale ci sarebbe un ulteriore fascicolo da aprire…
Tornando allo spettacolo, esso è nato “sotto mentite spoglie”.
N. P. – Già. In origine non c’era ancora Desaparecidos, ma Megalopolis, o meglio Megalopolis#43 [di cui Klp si era occupato nel 2015, n.d.r.], dal titolo del progetto di ricerca all’interno del quale lo spettacolo è inserito. Questo nuovo nome di battesimo fu “imposto” soltanto a partire dalla replica del 26 settembre 2015, a un anno dai fatti messicani, durante il Festival Avamposti, dopo l’esperienza di residenza presso il Teatro Akropolis di Genova dell’aprile 2015. Nell’autunno 2016 partecipammo poi al Festival Teatro Para el Fin del Mundo, una grande rassegna che interessa gran parte dell’America Latina. Fu l’occasione per una presentazione dello spettacolo in Messico e in Uruguay.
“Desaparecidos#43” in Messico. Quali furono le reazioni (vostre e del pubblico)?
A. D. D. – Premettiamo che già durante la nostra tournée del 2015 – che interessava anche quattro stati messicani – avevamo tentato di proporre “Desaparecidos#43” al Teatro Para el Fin del Mundo di Tampico, una città pericolosa, sulla costa settentrionale, afflitta dal cancro del narcotraffico e da un’altissima percentuale di morti violente. In quel frangente furono però gli stessi organizzatori del festival a dissuaderci dal proposito, considerando i rischi legati al contesto in cui lo spettacolo sarebbe andato in scena e ricordandoci che negli anni precedenti già alcuni collaboratori erano stati sequestrati. Temevano dunque – comprensibilmente – per la nostra e la loro incolumità.
A fine ottobre 2016, finalmente, riuscimmo a portare lo spettacolo a Città del Messico. Fu un’emozione grande. In scena, allora, eravamo in sette: nel cast erano presenti anche una compagnia di danza – la Tierra Independiente di Oaxaca, fondata dai coreografi Helmar e Paulina Alvarez – più tre partecipanti al workshop OPENCALL#43, che tenemmo per avvicinare artisti e studenti al tema. La replica conclusiva si tenne al Foro La Morada durante le attività legate alla mostra per i desaparecidos allestita negli spazi del Memorial ’68, l’area all’interno del Centro Culturale Universitario di Tlatelolco che ospita il materiale e la documentazione del massacro che avvenne nel 1968 proprio in quel luogo: l’esercito fece fuoco sui manifestanti provocando una vera e propria mattanza. Il pubblico, ampiamente stratificato, era visibilmente emozionato: le risposte furono vere ed immediate. Parole, commenti, pensieri, lacrime.
Perché in Italia il vostro teatro, il “teatro civile”, viene etichettato come una categoria a sé stante? Impegno civile e spinta politica non dovrebbero caratterizzare il teatro nel suo complesso?
N. P. – Istituendo una categoria non facciamo altro che defraudare il teatro del valore politico che gli è proprio. In America latina la situazione è ben diversa: non si percepiscono queste rigide distinzioni e lì sentiamo di poter ancora assolvere una funzione civile e civica. Dove arriva il teatro, che gode di un suo regime di semi-libertà, in quanto meno temuto (non se ne comprende infatti, da parte dell’autorità, l’intriseco potere perturbante), non può arrivare la stampa: l’informazione è sottoposta a cesure, manipolazioni. I rischi di espulsioni e ritorsioni sono poi altissimi.
A. D. D. – In Italia sussistono molteplici distinzioni di categoria, per contenuto e forma. Trovo che siano limitazioni forti, spesso imposte dalle logiche politiche [quelle del temuto F.U.S., che commina – per farla breve – finanziamenti differenziati a seconda delle categorie di spettacolo dal vivo d’appartenenza, n.d.r.], che hanno determinato divisioni divenute aberranti con il tempo.
C’è una bella differenza fra un teatro «d’impegno civile “emozionale”», com’è il vostro Desaparecidos#43, e un teatro che propina contenuti moralizzanti e ricettine di buonismo etico (il “teatro verboso d’impegno domenicale”)…
A. D. D. – Noi evitiamo la sterile caduta nel secondo partendo sempre da un’urgenza. “Made in Ilva”, ad esempio, era un ritornare al mio paese natìo, a Taranto. Naturalmente il vissuto personale viene sempre stilizzato e universalizzato, reso leggibile. Reso, insomma, archetipo. Nel caso di “Desaparecidos#43” parliamo del Messico perché è la casa che ci ha ospitati per molto tempo, dove abbiamo portato avanti il nostro “Megalopolis”. Sono state le parole degli studenti che conoscevamo e incontravamo, le loro urgenze, le nostre connessioni emotive con loro a far germinare lo spettacolo.
A livello estetico e drammaturgico, quali linguaggi scegliete di mettere in scena nella vostra “acción global”?
A. D. D. – “Desaparecidos#43” comprende molte forme, è un dialogo a più voci. Lo definiamo, forse riduttivamente, “teatro fisico”, ma c’è anche il testo e un forte accompagnamento della danza (i due linguaggi comunicano fra loro e sono intercambiabili), con attenzione precipua al lato visivo. Nel caso specifico di “Desaparecidos#43” siamo proprio partiti da suggestioni figurative, da immagini, manifesti, graffiti e slogan che venivano postati e ricondivisi in rete. Ad esempio alcuni hashtag che mutavano repentinamente in quanto il governo messicano associava loro dei contenuti spam. Attraverso il web gli studenti messicani nostri conoscenti ci inoltravano anche notizie dell’ultim’ora, che in Italia non avevano ancora avuto circolazione. È nata così una drammaturgia complessa e stratificata, che tiene anche conto anche dell’iconografia messicana tradizionale del periodo preispanico, come la figura della Llorona, la madre/Medea che uccide i propri figli e li piange, metafora dello Stato che elimina e al contempo si dispera per i propri giovani.
N. P. – Vi sono poi anche parti scritte direttamente da noi, come reazione emotiva ai fatti di cui venivano a conoscenza. Pur peregrinando fra diversi contesti geografici e culturali, lo spettacolo ha comunque mantenuto un tratto distintivo (che anzi si è accentuato in occasione della collaborazione con gli artisti messicani): il proprio bilinguismo. È una re-azione italiana, la nostra, ad una vicenda messicana. Ma il tema della libertà di opinione, di espressione, di manifestazione, sempre più minacciata in tutto il mondo, beh, quello ci riguarda tutti!
In questi giorni, come ricordavo prima, siamo stati a Barcellona: lì si respira ancora il vento della protesta catalana dei mesi passati. La città reca i segni dell’acceso dibattito sulla libertad. Tuttavia, anche la memoria è labile, se non opportunamente coltivata: quando il momento passa, anche lo spirito d’azione può rischiare di affievolirsi. Ci ha dato occasione di rifletterci un commerciante messicano che lavora a Barcellona, nel cui negozio abbiamo lasciato, qualche giorno fa, un paio di volantini per le repliche dello spettacolo.
Siete spesso all’estero. Quasi più che in Italia…
N. P. – Dopo la puntata torinese in effetti ci aspetta un mese piuttosto impegnativo dall’altra parte del mondo. Dal 3 al 5 marzo saremo in India con “Made in Ilva” per partecipare, come rappresentanti dell’Italia, all’ottava edizione delle Theatre Olympics, manifestazione organizzata fin dal 1994 da un comitato di registi – tra cui Bob Wilson – che, periodicamente, selezionano diversi spettacoli considerati di impatto mondiale. Dopodiché ci sposteremo al Jaipur International Theatre Festival, nel distretto del Rajasthan. Sfrutteremo poi il resto del mese del visto per una masterclass con artisti locali.