Di occupazioni e profanazioni, da Agamben ai beni comuni

In ordine sparso: l'occupazione della Comédie-Française di ieri (photo: Tommaso Zaccheo)
In ordine sparso: l'occupazione della Comédie-Française di ieri (photo: Tommaso Zaccheo)

Cosa significa, oggi, occupare? Cosa si cela dietro l’occupazione di un luogo, più o meno simbolico, in nome della rivendicazione di un diritto? Crediamo davvero nel fantomatico e modaiolo “bene comune”? E perché, allora, i movimenti occupanti, anche quelli che parevano più forti e organizzati – simbolo della ‘svolta’, sulla distanza ci sembrano implodere o non riuscire a provocare il vero rovesciamento?

Per essere meno teorici e più concreti, cosa sta accadendo in questi giorni pieni di polemiche via Facebook alla Cavallerizza Occupata di Torino? L’identità dell’Assemblea Cavallerizza pare al momento sfuggente. E nell’ombra del non ufficiale proseguono i movimenti dei ‘grandi’ (Comune, Stabile di Torino, fondazioni bancarie…), quelli che davvero – nel solco della tradizione – segneranno la svolta.
Cosa resta, poi, del fuoco del fu Valle Occupato?
Per spostarci poco più in là, gli artisti neo-occupanti francesi (dall’Odéon di Parigi a Montpellier e Strasburgo, da Caen alla Comédie Française di ieri), che protestano per la nuova riforma del lavoro, rappresentano un modello migliore dei nostri, creando un movimento che incide davvero sul cambiamento (in questo caso sulle trattative)?

Le domande si affollano e rumoreggiano in queste giornate che vedono notizie a colpi di aggiornamenti virali. Nel brulicare di voci e immagini che il web riverbera è difficile tracciare linee di demarcazione e cercare uno squarcio guida. Le voci rimbombano, le idee si confondono e quando l’utopia (ir)realizzata dell’occupazione come alternativa percorribile, per lo meno in Italia, sembrava allontanarsi, sfonda le ritrosie per rientrare con rinnovato entusiasmo dalla porta dei vicini francesi.
Sprazzi di nuove illusioni echeggiano dai megafoni d’Oltralpe, dove tutto par sempre essere più bello, più reale (o quanto meno realizzabile), più libero, più civile. Ma è davvero così?
Ci crogioliamo nel sogno d’una alternativa migliore che batte alle porte dell’Odéon e della Comédie Française. “Loro sì, che sanno come si fa casino!”. Quante volte lo abbiamo detto?

Ce lo chiediamo ancor più in queste ore in cui, negli spazi torinesi occupati e autogestiti di cui abbiamo seguito la nascita, si moltiplicano le fazioni, si acutizzano posizioni che dovrebbero essere sinergiche. Dall’altra parte rimbomba – passando da una capitale d’Italia all’altra – l’eco di un’assenza, di un silenzio non riparatore: quello del Valle, quello di Teatro di Roma.

Siamo quindi destinati a rimanere prigionieri di queste macerie utopistiche, per alcuni retrograde e ormai anacronistiche? O sono ancora, queste, forme di alternativa possibile?
Incapaci di formulare valide proposte ai modelli che tutti critichiamo, più o meno apertamente, l’occupazione sembra ancora rappresentare – nelle sue diverse modalità – un riferimento.

Ce ne parla anche “La Profana Azione” di Gianluca Bottoni e Daniela Pagani, presentato nel fine settimana, in una serata tutta performativa, alle (pur sempre coraggiose) Officine Caos gestite da Stalker Teatro: siamo proprio a Torino, estrema periferia, terra di vecchia immigrazione operaia e di rivendicazioni che appaiono sempre più lontane. Spazio redento per quel “chaos” originario che si presenta sì come abisso ma anche come spazio aperto, o di vuoto. Meritorio territorio di profan-azione? O, anche lui, ormai fuori dal tempo?

Bottoni e Pagani si chiedono da qualche anno quale sia la reale situazione degli spazi occupati e degli occupanti, ma anche di tutti noi, magari meno attivi nello scardinare un portone ma comunque paladini senza macchia dei beni comuni.
Alla luce di quanto accaduto alle diverse esperienze, si (e ci) domandano: vogliamo davvero queste occasioni di libertà?

Per questo hanno compiuto un percorso raccogliendo voci e testimonianze registrate in alcuni luoghi occupati e restituiti all’uso, a partire dal Teatro Rossi Aperto di Pisa. L’insieme di registrazioni crea un tappeto acusmatico di suoni che, nel buio di una sala, viene riproposto al pubblico, in un attraversamento filosofico-esperienziale che parte da un’opera di Giorgio Agamben, “Elogio della profanazione”.

Profanare significa, secondo Agamben, restituire all’uso comune ciò che è stato separato nella sfera del sacro.
Se, riassume con chiarezza Gabriella Giudici, la “religione [è] ciò che sottrae cose, luoghi, animali e persone all’uso comune e le trasferisce in una sfera separata”, secondo Agamben “pura, profana, libera dai nomi sacri, è la cosa restituita all’uso comune degli uomini. Ma l’uso non appare qui come qualcosa di naturale: a esso si accede soltanto attraverso una profanazione”.
Ecco allora che la profanazione appare come il vero compito politico del nostro tempo: “Una volta profanato, ciò che era indisponibile e separato perde la sua aura e viene restituito all’uso”.

Di questo compito (o della riflessione su questo “incarico”) si occupa appunto “La Profana Azione”.
Il materiale audio registrato viene restituito agli spettatori privo di un contesto, in un buio che punta tutto sul suono, sull’ascolto, che significativamente coglie lo spettatore isolandolo da tutto il resto, ponendosi tuttavia – per la sua naturale forma frammentaria – come materia di difficile fruizione.

Sarà attraverso l’utilizzo del proprio corpo per esplorare lo spazio e l’altro da sé, che Daniela Pagani inizierà ad interagire con alcuni spettatori, inglobati in quest’esperienza di attraversamento (“una delle forme più efficaci di profanazione si realizza per contatto” sostiene Agamben).
Ma l’azione politica complessiva dello spettacolo rimarrà, secondo chi scrive, troppo delicata, sfiorando la pelle senza mettere al muro la coscienza, senza graffiare l’anima. Non affondando nel rischio della comunicazione reale con l’altro. Che è poi quello che invece sembra chiederci la performace: un invito ad abbandonarci.

Se davvero crediamo che l’arte possa avere una funzione politica deve allora rendersi più coraggiosa. Al buio, l’ascolto di parole che non riesco a focalizzare mi attraverserà scivolando via, senza tumulti, senza che si verifichi quello scarto che invece vorremmo vedere realizzato anche nelle occupazioni.
Pensando al rituale teatrale vien da immaginare una preghiera dello spettatore all’arte: “Profanami, rendimi libero, non farmi uscire da quest’esperienza uguale a come sono entrato”. Sarà questa la vera sfida di sopravvivenza del teatro?
E noi, pubblico, ne siamo pronti? Siamo decisi a profanare? Ad occuparci? E’ ancora questo il nostro linguaggio? Parla ancora a noi questo tipo di azione/impegno (politico e artistico)? O lo riteniamo – in totale sincerità – desuetamente sorpassato, figlio di una sperimentazione e di movimenti del passato, noi, vittime (o eroi) dell’era del dis-impegno?

Come decidiamo di porci, infine, di fronte a quelle sedie vuote, accatastate e in bilico al termine dello spettacolo (messe “a cazzo”, dirà qualcuno, come la situazione politica attuale)? Quelle sedie banalissime “che troviamo nelle sale delle assemblee nei posti occupati, alcune rotte, sbilenche, meno confortevoli…”, spiega Bottoni, simbolo di una “bellezza di forme brute, monche, affaticate o rozze”. Che pare così cozzare, oggi, con l’estetica dominante.
Qualcuno, di quelle sedie vuote, se ne farà carico?

Nel vociferare confuso di queste giornate, è difficile districarsi fra utopie mai compiute e moti di sopravvivenza non ancora del tutto sopiti.
Ci si lascia con l’augurio che l’impietrimento da Agamben nominato (e da Bottoni e Pagani così temuto) non ci abbia già raggiunto. Che lo squarcio di luce “tagliato” dalla Profana Azione venga davvero a profanarci: non solo prendendoci per mano e convogliandoci in un’esperienza performativa, ma obbligandoci ad un pensiero libero che si tramuti in azione, che non si cristallizzi in sola opinione. Chiedendo alla stessa arte di giocarsi la sua libertà, avendo il coraggio di guardare in faccia il proprio pubblico: rendendolo fino in fondo rito condiviso. Politico, come si dichiara.
Ecco allora che quest’esperienza, forse, ci salverà.

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