Ventidue candeline sulla torta, ventisette creazioni contemporanee in cartellone, per un “annodadonna” di tutto rispetto. Tante compagnie italiane e internazionali, affermate ed emergenti, stanno presentando i propri lavori (molti dei quali in prima nazionale) ad una pletora di spettatori affamati di teatro.
I primi giorni del Festival delle Colline Torinesi hanno registrato un grande successo di pubblico. Sale piene, umore alle stelle, lunghe tirate di applausi…
L’onore ed onere di dare (letteralmente) il “via alle danze” è spettato quest’anno ai Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa, andati in scena nella propria pittoresca magione, il Marcidofilm!, con “Amelia la strega che ammalia and friends”, esperimento corale ed allucinato di teatro poetico, scritto e diretto da Marco Isidori.
Lo spettacolo è ermetico fin dal sottotitolo: “Quando si è visto Dio qual è il rimedio?”.
Si leva il sipario “strumentale” in bianco e nero. È subito un’esplosione cromatica: siamo letteralmente nella mente delle poetesse Amelia Roselli, Emily Dickinson e Sylvia Plath, in quella fucina psicologica (e psicotica) che produce irrefrenabilmente versi. Pareti nere tutto intorno. Al centro del piano di calpestio una pedana circolare di legno, che all’occorrenza diventa tamburo, piedistallo o ruota.
Ad invadere questo reticolato geometrico, che ricorda da vicino i quadrati compositivi di Amelia, l’autrice che ammalia, sono nove figurine in jeans e t-shirt sgargianti, le cui tinte spaziano all’interno del vasto spettro dell’iride, dal verde scuro al rosso ciliegia, dal giallo-su-viola ai pois bianchi. La costruzione visiva è saggia e ponderata.
Per circa un’ora e mezza gli attori, capitanati da Maria Luisa Abate, danzano e saltellano sulla scena, aprendo talora squarci di ilarità, ma restando comunque (e sempre) “istrioni” scossi da suggestioni infernali, che li sconvolgono da dentro, restituendoli trasognati, frenetici e poco rasserenanti, anche se ad un certo punto della pièce viene installata sulla parete di sfondo un’Orsa maggiore 3.0 in plastica e led, guida de marinari erranti. Si tratta di quei perduti uomini che – sconvolti da una «strenua battaglia sensual/loica che ha governato il loro destino nella faticata via dell’autoesposizione formale» – si avviano, dicono i Marcido, verso la “Croce” perenne.
L’esecuzione dei movimenti è sempre ottima, così come le relazioni prossemiche e le simmetrie costruite sul palco. È difficile, tuttavia, nella sequela di azioni fisiche e declamazioni liriche non percepire una certa monotonia, un certo ritmo monocorde: una qualche variazione di tono avrebbe giovato alla resa complessiva.
Particolarmente meritevole la performance di Paolo Oricco, di cui si percepisce visibilmente (complice il clima familiare e raccolto della sala gremita) la fatica, la tensione fisica, il lavoro profondo che lo rendono parola viva: d’altronde, come ci ricorda la compagnia, «se c’è qualche verità sulla bocca dei poeti, io vivrò».
Le girandole, non più fisiche ma ontologiche, caratterizzano invece il sublime lavoro dei Motus, l’ormai venticinquenne figliol* (l’ambiguità è d’obbligo) di Enrico Casagrande e Daniela Nicolò, che torna al festival con “Raffiche”, un’esperienza teatrale forte e incisiva.
L’opera «nasce da una impossibilità: quella di riallestire “Splendid’s” di Jean Genet a distanza di quattordici anni dalla storica interpretazione, con un cast di sole donne. Le regole dei copyright internazionali prevedono il rispetto del sesso dei personaggi, così come essi sono indicati nei copioni. Anche quando si tratta di un autore come Genet, che per tutta la vita ha propagandato la necessità della metamorfosi, del tradimento e dell’ambiguità. Da questo sorprendente diniego è esploso il desiderio di lavorare sul tema dell’identità e della rivolta, del rifiuto di aderire a un preconcetto ossequio alla divisione della realtà in maschi e femmine».
La sapiente drammaturgia di Magdalena Barile e Luca Scarlini vede in scena otto personaggi – Jean, Rafale, Bravo, il Poliziotto, Pierrot, Riton, Scott e Bob – in una situazione simile al modello francese, del quale si mantiene, a mo’ di dedica, il nome dell’albergo.
Una band di malviventi, che per “errore” ha ucciso un ostaggio, è assediata dagli sbirri e dunque costretta entro le fumose mura di uno spazio che è insieme prigione e postribolo. A ben guardare, ad attenderle fuori, minaccioso, non è tanto il carcere, ma lo status quo.
Le Petit Hotel di via San Francesco d’Assisi si trasforma per l’occasione in elegante cornice scenica: il pubblico, radunato nella hall, viene esortato delle attrici a mano armata a trasferirsi a piccoli gruppi nei sotterranei. Lì è stata allestita una scenografia tripartita: nel vano più lontano vediamo un divano, sul quale è presto adagiato il cadavere della defunta; quello centrale è invece un crocevia di passi, risate, baci, rumore di tacchi. Il terzo vano/suite è quello in cui si svolge gran parte dell’azione. Meglio dire, in cui si sviluppano i dialoghi, dal momento che – in fondo – non accade nulla: è un drammatico approssimarsi verso la fine.
Gli spettatori, istruiti da Scott/Emanuela Villagrossi, vengono fatti accomodare su sedute e cuscini: a sinistra, per chi guarda, due divanetti rossi fiancheggiano un tavolino, sul quale sono deposti un bel mazzo di fiori e una radio. Da qui sgorgano incessanti canzoni e voci, precisamente quelle di Luca Scarlini e Daniela Nicolò. Sulla destra un divano più ampio, sul quale Jean e i suoi si ritrovano spesso ad amoreggiare. Dominano le tinte dell’eros e della morte: il rosso e il nero. Piacerebbe anche a Stendhal.
Le attrici, attraverso il pretesto della gang, raccontano la storia di otto identità mutevoli: una versatilità sessuale e di genere che investe anche gli istituti linguistici, la grammatica dell’italiano. Femminili e maschili si confondono senza tregua, e c’è perfino spazio per una riflessione sull’alfabeto: quali lettere meritano di essere conservate? La G di gay, la E di eros…
Streghe transmoderne, si definiscono loro: ma sarebbe forse più corretto chiamarle neo-Santille, Lelie e Viole della scena contemporanea. Figlie e sorelle di quegli archetipi teatrali della lotta femminile contro i pregiudizi e l’alienazione.
Le interpreti, in questa prova magistrale, propongono di continuo passi di danza, movenze, gesti, che – insieme al sottofondo sonoro – vanno a comporre un’attenta partitura: al ritmo del bastone di Emanuela Villagrossi (in questa veste forse parente del Signor Perrot immortalato dal celebre quadro di Degas), si muove una “classe di danza” costituita dalla stravagante I-Chen Zuffellato (che in effetti si slancia in un rapido arabesque), l’intrepida Ilenia Caleo, la cinica e sensuale Sylvia De Fanti, l’allucinata Ondina Quadri, l’algida Alexia Sarantopoulou e la caleidoscopica Federica Fracassi. Ruolo di étoile è affidato a Silvia Calderoni, sempre più brava (fino alla morte), sia nelle vesti di Jean sia nella parodia della biondissima estinta.
Imperdibile.
Importante cameo nelle prime giornate di festival è stato quello di Chiara Guidi, di ritorno a Torino dopo la sua partecipazione autunnale al Seminario Internazione “In atelier” (organizzato da Eva Marinai, docente dall’Università di Torino), questa volta con una performance laboratoriale dal titolo “Lettere dalla notte”, liberamente tratto dai testi di Nelly Sachs, poetessa tedesca, premio Nobel per la letteratura nel 1966.
Il lavoro, al cui centro è posta – nuovamente – la voce (oggetto di approfonditi studi da parte dall’artista), si articola in una sorta di reading sciamanico, alla cui realizzazione ha collaborato un “coro di cittadini”, circa trenta non professionisti reclutati tramite manifestazione di interesse, coinvolti all’interno di un workshop di tre giorni condotto dalla Guidi.
Prendendo spunto dall’epistolario della scrittrice, esule in Svezia per sfuggire alle persecuzioni razziali e all’orrore della shoah, e soprattutto dal carteggio con l’amico Paul Celan, la Guidi – sola sulla ribalta – assume il ruolo di lettrice e direttrice d’orchestra. È una stytelerys contemporanea.
I significati di cui le “sue” parole si fanno portatrici rimandano ad un universo interiore tormentato e depresso, ai limiti della schizofrenia paranoide. È un parlare a tutti, ma in fondo a nessuno. Un’atroce eco.
Guidi modula, sia pur quasi impercettibilmente, il timbro della voce a seconda di chi sia l’interlocutore. Sul fondo del palco, fiocamente illuminato, c’è Natàn Santiago Lazala, intento a suonare uno xilofono, generando così un’atmosfera tra il liturgico e il mistico.
In mezzo al pubblico delle Lavanderie a Vapore, infine, si nascondo i coreuti/coristi. In vari punti dello spettacolo, guidati dalla Guidi (nomen omen), si alzano in piedi, eseguendo esercizi vocali: suoni gutturali, gorgheggi, virtuosismi fonici per conferire un tono emotivo a ciò che viene letto; ora levano le braccia al cielo, ora leggono all’unisono passi del testo. Le parole diventano mantra.
Gli appuntamenti delle Colline proseguono fino al 22, ogni giorno con due diversi spettacoli. Segnaliamo oggi il debutto di Cuocolo/Bosetti in “Roberta va sulla luna” e il nuovo lavoro di Babilonia Teatri “Pedigree”. Debutti anche la prossima settimana per La Ballata dei Lenna con “Human Animal. Se sei immune alla noia non c’è niente che tu non possa fare”, Teatro di Dioniso con “Ifigenia in Cardiff”.
Tornano le She She Pop con “50 grades of shame” (in prima nazionale), così come Timpano/Frosini con “Acqua di Colonia”. Di nuovo a Torino, dopo essere stato a Interplay lo scorso anno, anche Euripides Laskaridis con “Titans”, in prima nazionale, che ricorre alle nozioni di ridicolo e di trasformazione per esplorare la perseveranza dell’umanità di fronte all’ignoto.
Prendendo spunto dal celebre ciclo di romanzi dedicati alla storia di un’amicizia tra due donne, “L’amica geniale”, Fanny & Alexander e Ateliersi affrontano una ricerca sull’attorialità e sul significato della drammaturgia. E poi ancora Le Belle Bandiere, Fibre Parallele, i Fratelli Dalla Via… Insomma, per una serata a teatro non c’è che l’imbarazzo della scelta!