Suggestioni da questo Torino Fringe Festival, che oggi arriva al suo gran finale. A spasso per la quinta edizione, abbiamo scelto di privilegiare soprattutto gli spettacoli di chi viene da fuori, perché sarà più difficile rivederli in città, e che più ci hanno positivamente colpito.
Partiamo in questa nostra personale selezione da “Agnus Dei”, di e con Angelo Colosimo.
Colosimo nasce in Calabria ma vive a Bologna e negli anni ha lavorato con registi come Valerio Binasco, Claudio Longhi e Walter Le Moli. “Agnus Dei” è il suo secondo lavoro per la regia di Roberto Turchetta dopo “Bestie Rare” (premio “Drammaturgie Nascoste” del Teatro Valle di Roma nel 2013).
Intenso e passionale, Colosimo porta in scena una donna che, vittima e carnefice allo stesso tempo, racconta ai suoi fantasmi la storia disgraziata della propria esistenza orfana: orfana di sé stessa, dell’amore che troppo presto le è stato sottratto, orfana del senso della realtà che salva dalla follia.
Inframezzata da folli preghiere, rivolte ad una madonna con le fattezze di Marylin, si scopre, ridendo, la sua storia: dall’infanzia dalle suore all’incontro con l’amore e la maternità, passando per il rapporto con una suocera dispotica e maligna, fino all’epilogo tragico e rivelatore.
Si ride, certo. Ma allo stesso tempo si piange. E si rimane lì a guardare lo scorrere di una vita, consapevoli che non ci saranno, e forse non ci sono mai state, vie di scampo. Forse l’unica fuga possibile resta davvero solo nelle cartoline davanti a cui si sogna di posti e panorami che potranno placare l’angoscia perenne.
In “Agnus Dei” c’è tutto quello che dovrebbe esserci in un testo teatrale e Angelo Colosimo non si risparmia sul piccolo palco dello Spazio Ferramenta. Un’ora serrata, stretto in un’improbabile abito rosa da damigella, in cui snocciola la propria follia di ”donna sola”, riuscendo ad essere al tempo stesso grottesco, patetico e tragico.
Da vedere.
Ancora una storia tragica e grottesca per la produzione della compagnia Il Magnifico Visbaal Teatro “Fuje Filomena”, testo e regia di Peppe Fonzo.
Lo spazio sotto il Bazaar è piccolo, purtroppo male insonorizzato, senza quinte e senza uscite. Eppure nell’ora di spettacolo Credendino riesce a farlo diventare proprio la “casa”, adatta per una storia di soprusi ed “eterni sospiri”, una storia nata nello squallore di una Napoli violenta e senza regole.
“Fuje Filomena” è una rilettura della figura di Filumena Marturano: “Cosa succederebbe se la Madonna non avesse risposto a Filumena nella scena clou del dramma Eduardiano? Come avrebbe reagito Filumena a quel mutismo? Come si sarebbe svolto il dramma senza alcuna risposta? E figlie so figlie” .
Da questa riflessione è partito l’autore per tradurre ogggi Filumena in un “femmeniello”, un trans. Cacciato di casa a tredici anni, inizia (subendo una violenza) la sua “carriera” nel bordello, fino a quando il Don Mimì dei nostri tempi non lo rinchiude, principessa nel castello, nell’appartamento comprato per averlo tutto per sé, “da puttana a carcerata”, o meglio: “Non sei niente, non sei nessuno, non sei una donna e non sei nemmeno una puttana”. Ed è già qui racchiuso il senso di tutte le violenze, di tutti i diritti violati.
Non ci sarà “E figlie so figlie”, perché i sospiri diventeranno desiderio di vendetta, perché il mutismo di una madonna silente sarà la causa stessa della tragedia.
Anche qui si ride ma con un costante amaro in bocca.
Luigi Credendino porta in scena questa “moderna” Filumena con verità, lasciandoci con la sensazione di essere in fondo un po’ tutti colpevoli, con la certezza che il finale di Filumena Marturano esista davvero solo più nelle “favole borghesi” ormai decisamente fuori moda.
Al Garage Vian uno degli spettacoli più “impegnati” e forse “impegnativi” del Fringe. “Autodiffamazione/Selbestbezichtigung” della Compagnia Barletti/Wass dal testo di Peter Handke scritto nel 1964, viene interpretato in doppia lingua, italiana e tedesca (con sovratitoli).
Coppia anche nella vita, Lea Barletti e Werner Wass lavorano insieme dagli anni ’90 fra Roma, Monaco di Baviera e Berlino.
“Autodiffamazione” è una “messa a nudo” dell’uomo, del suo “andare” nel mondo tra evoluzione e regole. Siamo nati, abbiamo imparato a camminare e a comprendere, e poi ci siamo persi. Una confessione che inizia con i due attori nudi in proscenio a “dire il testo”.
Non sono stato come avrei dovuto essere.
Non sono diventato quel che sarei dovuto diventare.
Non ho mantenuto quel che avrei dovuto mantenere.
Non c’è scena, poca musica. Ma il testo di Handke ti incolla lì alla sedia per portarti dentro ogni angolo recondito della tua vita.
Quanto ho peccato ? Quanto ho infranto le regole ? Quanto non ho mantenuto di quello che volevo essere? C’è la storia intera dell’uomo. Forse proprio per questo non servono orpelli in scena. Due voci e due corpi si rivestono per continuare ad “elencare” i passi della propria esistenza, e pian piano non sono più solo parole “dette” ma commozione nel riconoscersi fragili, cattivi, forse peggio di quello che pensavamo di essere, sicuramente diversi da quello che avremmo voluto. E’ una confessione in cui l’unico perdono possibile, se di questo abbiamo bisogno, è forse guardarsi con tenerezza e compassione.
Nel girovagare per il Fringe incontriamo anche Batisfera Teatro, da Cagliari, in “Come sto”, prodotto da Sardegna Teatro e Akròama.
Lo spettacolo è incentrato sulla magica frase “come stai”, sulla costante e progressiva perdita di valore di una domanda che dovrebbe invece ritrovare il suo significato più profondo.
Angelo Trofa (autore e regista) e Valentina Fadda affrontano sei scene in cui il “come stai” assume tutti i colori possibili, condite da un senso dell’assurdo che ci fa riconoscere le piccole bruttezze del nostro tempo.
E’ uno spettacolo coraggioso nel suo affrontare un quesito che entra prepotentemente nella nostra vita quotidiana. E nell’assurdo di questo “dialogo sconnesso” ci troviamo a ridere di noi stessi con una regia che va all’essenziale e che, quando trova il giusto compromesso tra follia e logica, regala momenti esilaranti.
Segnaliamo ancora, prima di concederci all’unica compagnia torinese di questo nostro personale excursus nel Fringe, “Underwood” di e con Cecilia D’Amico nei panni di Alice, rimasta senza psicologa e alla ricerca di una propria stabilità: una divertente commedia che mischia avanspettacolo e varietà, e che vede in scena un’ottima interprete, capace di sostenere ritmi serrati e perfetti tempi comici.
Officina per la Scena ha presentato invece “METAmORFOSI. Soliloquio dell’identità sociale, del diverso e delle sue vittime”.
Due attori sul palco: Luca Busnengo, in carne ed ossa, è seduto su uno sgabello al centro della scena, intento a disegnarsi sui palmi delle mani una faccina dall’espressione malinconica e una dall’espressione corrucciata (che interpreteranno in seguito le tiranniche voci della sua mente); sullo schermo dietro di lui la sua immagine videoproiettata da una telecamera, ad imporre con violenza la cartografia di un volto sofferente e afasico.
Lo spettacolo si apre dunque sulla cifra della duplicazione, su un gioco di rifrazione che ben rappresenta il ripiegamento della coscienza infelice e ipertrofica di questo Gregor Samsa ancora indeciso fra nascondimento e autoesposizione, che non rinuncia a confessare i propri intenti autolesionistici e suicidi all’obiettivo di una videocamera, come in un perverso reality show.
Con l’ausilio di semplici luci blu, di un artigianale effetto fumo e di una inintelligibile voce metallico-robotica di sottofondo – che conferma il tema dell’incomunicabilità, di un fallimento del linguaggio ad esprimere il dolore psichico – il palco si trasforma progressivamente nel fosco setting di “Incontri ravvicinati del terzo tipo”: una sinistra cripta sotterranea – che è poi la stanza onirica di Gregor Samsa – nel quale il pubblico può finalmente fare conoscenza con la bestia interiore del protagonista, la depressione, un male che si insinua sotto forma di strisciante e venefico insetto, inducendo all’apatia, al disprezzo di sé, all’automortificazione e all’odio per il consorzio umano.
È così che, nei panni di uno scarafaggio, in bilico fra il lirismo esistenziale dell’Amleto shakespeariano e il risentimento dell’Uomo del Sottosuolo dostoevskijano, Luca Busnengo ci regala un monologo di straordinaria intensità – per non dire esasperazione – emotiva, costruito sul canovaccio della “Metamorfosi” kafkiana, sostenuto da una voce e da una gestualità altamente drammatiche, intenzionalmente patetiche.
Ma a prendere parola in questo spettacolo non sono soltanto la voce e la tragedia del Diverso, dell’outsider che non riesce ad integrarsi o a cui non è permesso di integrarsi nella società. Una volta riaccese le luci è infatti il carnefice a pretendere la ribalta e ad esporre le ragioni della propria gratuita spietatezza: è il “bullo” che cerca di giustificare il proprio sadismo verso la vittima attraverso un crescendo autoassolutorio calibrato sulla ripetizione, sulla ridondanza, sull’amplificazione apologetica. Un mantra di autoconvincimento in cui la colpa finisce per ricadere, paradossalmente, sulla stessa vulnerabilità e passività dei deboli, dei succubi, di coloro che provocano su di sé la violenza proprio a causa della loro oscena, irritante, inoffensività, quasi confermando l’inevitabilità dell’hegeliana dialettica servo-padrone.
Quante volte da bambini ci è capitato di capovolgere per gioco un insetto sulla schiena e di abbandonarlo a dimenare le zampine nel vano tentativo di ribaltarsi? Ci siamo mai chiesti cosa accade a questi scarafaggi, queste creature quasi mitologiche che, forti della loro corazza, si dice siano sopravvissute alle glaciazioni e si crede sopravviveranno anche alle radiazioni dell’apocalisse nucleare? Non sopravvivono alla cattiveria umana: le blatte muoiono calpestate dall’indifferenza, soffocate dal loro stesso pianto. E’ così che la favola nera di Busnengo si chiude sulle note di Giorgio Gaber, che ci invita a fare i conti con “i mostri che abbiamo dentro… il gene egoista che senza complimenti domina e conquista”.