Sembra essere l’anno del gabbiano, uccello imperioso che sempre più muta le sue caratteristiche di regale dominatore dei mari per trasferirsi nell’interno di città, campi seminati e discariche, alla ricerca di cibo.
Livorno è una città dove se ne trovano molti. Ma del gabbiano e di Livorno parliamo poiché siamo stati invitati alla messinscena de “Il gabbiano” di Cechov in un piccolo e delizioso spazio, il teatro Florenskij, ubicato proprio nel cuore di Livorno, a due passi dalla storica piazza XX settembre.
Oggi convertita in spazio pubblico, un tempo era ben più conosciuta come sede del famoso “mercatino americano”, dove si trovava di tutto, merce contrabbandata ma di qualità, esotica nel suo provenire da misteriosi container del porto, in anni in cui il mercato non era così omologato come ai giorni nostri, dove ai grandi magazzini monomarca si trovano le stesse cose, da Perugia a Oslo passando per Bordeaux.
Ma torniamo al teatro Florenskij, non distraiamoci. E’ lo spazio dove risiede la compagnia Garbuggino / Ventriglia e all’interno del quale è andato in scena l’esito di un “percorso pedagogico artistico iniziato nel novembre 2013” coordinato dai due attori, che hanno avuto il coraggio – o forse l’ardire – di mettere in scena, a fine giugno, la versione integrale de “Il gabbiano”.
Immaginate un piccolo spazio, una ventina di posti a sedere, un rettangolo di parquet e quattro luci piazzate. E soprattutto nove attori “sconosciuti” (li definiamo così per comodità) alle prese con un testo del genere.
Al termine della messinscena ho pensato, quasi frastornato per la sorpresa, che non si trattava né dell’esito di un percorso, né di uno spettacolo, bensì di un “fatto di teatro”. E devono averlo pensato anche tutte quelle persone che hanno assistito al lavoro, attente e ipnotizzate, silenti e colpite, ma pure tutte quelle che, passando nella strada antistante al teatro, fra auto e motorini parcheggiati, guardavano oltre il vetro dell’ingresso, all’interno dello spazio illuminato – quasi una sorta di acquario – stupiti e curiosi, immaginando chissà cosa.
Un Gabbiano denso, potente, con ogni attore vibrante come la corda di uno strumento interiore accarezzato con forza, ognuno con le sue precipue qualità e caratteristiche, ognuno con il proprio filtro policromo, pronto a restituire le sfumature del testo, e tutti attraversati da una densa e profonda “emozione”, emozione di dire qualcosa di vero, di vivere pulsioni e passioni, in lotta con la realtà, come se parlassero, nell’intimità, ad un amico di un qualcosa che li riguarda da vicino.
Il pensiero corre a “Il gabbiano” del Teatro Nazionale Serbo visto di recente a Firenze, una cattedrale immane, una fortezza regale maestosa quella, al contrario della semplice ma strutturata capanna di legno labronica, ma una capanna fatta di un legno “forte”, elegante e straordinaria nella sua semplicità e così “vera” nella sua essenzialità.
Con una scenografia pressoché assente, tutto è affidato alla parola e a pochi elementi scenografici, come un cappello o una camicia a distinguere i personaggi, che sono interpretati nell’arco dei quattro atti a turno da attori diversi – anche questo depone a favore dell’intensa prova del gruppo – capaci di incrociare nella rappresentazione gli straordinari caratteri del drammaturgo russo.
Sarebbe un torto soffermarsi su qualcuno in particolare tra i protagonisti in scena, la cui prova va sottolineata per la fiamma viva che hanno alimentato nel corso delle oltre due ore e mezzo di rappresentazione. Ma i complimenti devono andare anche al grande lavoro che sta alle spalle di questo percorso, a Gaetano Ventriglia e a Silvia Garbuggino (anche loro in scena), attori che seguo con entusiasmo da tempo e che sempre riservano grandi sorprese nelle loro eterogenee messinscene, di qualunque cosa si tratti, e che credono fortemente in tutto quello che fanno, con rispetto, devozione, e soprattutto serietà.
Come non sottolineare nel quarto atto, riuscito e compatto – con un finale sorprendente nella sorpresa (mi si perdoni il gioco di parole) che già ci ha accompagnato sin dall’inizio – l’interpretazione di Ventriglia nei panni dell’anziano consigliere di stato Sorin, “L’homme qui a voulu”, l’uomo che ha voluto. Cito a tal proposito un significativo estratto, dalla traduzione di Fausto Malcovati. Afferma Sorin:
“In gioventù avrei voluto diventare uno scrittore, e non ci sono riuscito; avrei voluto essere un buon parlatore, e parlo in modo spaventoso (si rifà il verso) “già, perché poi, ecco tutto, in fin dei conti… ” e invece di arrivare al punto, non la finisco mai; avrei voluto sposarmi, e non mi sono sposato; avrei voluto stare sempre in città e finisco la mia vita in campagna, ecco tutto”.
Quanta forza nelle parole di rimpianto di un innamorato della vita e quanta verità nello sguardo dell’attore pugliese nel declamare con delicatezza questa piccola battuta. Basterebbe questo, assieme alla messinscena a cui abbiamo assistito, a riappacificarci con un teatro troppe volte sterile, autoreferenziale e a tratti così poco rispettoso della “serietà” necessaria quando si percorrono determinati territori.
E invece, una sera, a Livorno, in un piccolo spazio, ti puoi imbattere in tutto questo. E non è davvero cosa da poco.
Gabbiani nello spazio
da Il Gabbiano di A. P. Cechov
spettacolo finale del laboratorio condotto da Silvia Garbuggino e Gaetano Ventriglia
con: Elisa Baracchini, Andrea Farulli, Silvia Garbuggino, Valeria Landi, Elisa Lazzeri, Gaetano Ventriglia
con la partecipazione di Giulia Bicchielli Aldo Galeazzi, Francesca Finocchiaro
durata: 2h 42′
applausi del pubblico: 2′
Visto a Livorno, Teatro Florenskij, il 24 giugno 2014