La fragilità dell’uomo e il mormorio di una montagna leggendaria. L’impresa di scalarla, cui non sono sufficienti passione e perizia.
Il Nanga Parbat, la montagna più alta del Kashmir, nona vetta della Terra vicinissima all’Himalaya, è la voce di un gigante estremo.
“I guardiani del Nanga”, monologo teatrale di Nicola Ciaffoni con la drammaturgia di Gioia Battista e la regia di Stefano Scherini, si distingue dalle altre produzioni della compagnia Mitmacher. Che ci aveva abituato a trastullarsi con la grande letteratura da Omero a Virgilio, da Boccaccio a Bradbury, attualizzando miti e topoi, coniugando la grandezza dei classici a messinscene leggere, con ripetuti rimbalzi metateatrali e un continuo coinvolgimento del pubblico.
“I guardiani del Nanga”, in onda il 25 febbraio dal Teatro Luigi Candoni di Tolmezzo, con la collaborazione di Ert (Ente Regionale Teatri) del Friuli Venezia Giulia, fa parte della rassegna Circuito Aperto di teatro in streaming. Ed è uno spettacolo adatto a questo tempo sospeso.
Una montagna da scalare, con la sua imponenza proiettata verso l’assoluto, rende l’idea della solitudine e della vulnerabilità di un uomo. Una montagna è più disabitata di un teatro vuoto.
Per questo monologo online, non sono casuali né il teatro scelto, né la data. Tolmezzo, inverni freddi e nevosi, è a un passo dal monte Amariana, quasi duemila metri d’altezza e una forma piramidale che è simbolo della città. Il 25 febbraio del 2019, esattamente due anni fa, Daniele Nardi e Tom Ballard morivano nel tentativo di salire il Nanga Parbat attraverso lo sperone Mummery. Questo spettacolo è dedicato a loro, allo stesso Alfred Mummery, prima vittima della “montagna nuda” nota anche come “mangia uomini” o “montagna del diavolo”.
È questo il Nanga, 8.126 metri d’agonia, terza vetta della Terra come numero assoluto di morti, seconda dopo l’Annapurna come indice di mortalità.
“I Guardiani del Nanga” sono gli arditi esploratori che hanno perso la sfida con la montagna e ne sono rimasti intrappolati, da Mummery a Nardi, passando per Willy Merkl, Günther Messner, Josè Antonio Delgado, Karl Unterkircher e Tomasz Mackiewitz.
Sette storie esemplari, ma sarebbero potute essere decine di più, tutte degne di essere raccontate. Eroi dell’epoca contemporanea, che non si sono arresi ai limiti imposti all’uomo dalla natura, e hanno affrontato le vette, gli abissi, le intemperie e la morte con mezzi “leali”, senza facilitazioni. Con il presupposto che «la cosa migliore da fare con la morte è approfittare della vita» (Delgado).
Una drammaturgia poetica e profonda, fatta di sogni, spregiudicatezza e tormenti. Un Ciaffoni dalle molte vibrazioni che dà spazio, tra i personaggi, alla filosofia sagace degli sherpa, abitanti dell’Himalaya.
Sulla scena nuda, scura come la neve e le rocce del Kashmir, un uomo solo. Dietro di lui una tenda da campeggio dalla forma piramidale: ne fuoriescono storie, e poi un casco, i ramponi, gli imbraghi, una piccozza, bocchettoni e corde.
Il vento sferza corpi come rami secchi e divora ogni certezza. Lo spettacolo è un mix di sentimenti contrastanti: paura, ansia, desiderio, resistenza. Domina il coraggio. La morte è una possibilità tra le altre. La montagna è colosso vitale, simbolo della forza distruttiva della natura. Ne avvertiamo il respiro e la potenza. L’uomo è presente alla propria fragilità.
Ogni biografia è come trasfigurata. Le storie in sequenza assumono il valore di un’esperienza paradigmatica: alpinisti, avventurieri, prima di tutto uomini che incontrano la verità e il senso profondo e ultimo della propria esistenza. Deserti di neve, lastre di ghiaccio, miraggi; condizioni estreme di freddo, di fame, di sete. Senso di asfissia, e uno stato sublime di meraviglia.
Senza orpelli, nella rara capacità d’immersione in immagini nitide e sofferte, nel precario confine tra la vita e la morte, troviamo la peculiarità di questo lavoro ricco d’immagini analogiche e fortemente allusive, che esprimono il senso del mistero che pervade la realtà.
Le luci di Stefano Scherini sono didascalie emozionali, dal buio della notte ad alta quota fino l’oscurità dell’anima inerte in una voragine di dolore inframmezzata da bagliori sporadici. Percepiamo la forza degli elementi. Sentiamo il sibilo sinistro del vento, la voragine del vuoto, l’insidia dei crepacci, lo scricchiolio sdrucciolevole del ghiaccio nel cuore di notti insonni.
Una pièce profonda. Parole senza immagini. Una drammaturgia documentata, frutto della narrazione degli alpinisti e delle loro vedove raccolta meticolosamente da Gioia Battista, con la devozione di custodirne la memoria e i sogni. Una storia che traspira umanità e mitologia.
Il cielo lucente o cupo, l’ascesa, la fatica, si riempiono di contenuti simbolici. Si aprono squarci di poesia. Nasce un dialogo silenzioso tra noi e le figure di un passato tutt’altro che remoto. Siamo formiche invisibili sulle pendici di un gigante. Lo sguardo decolla sopra la nostra gracilità.
Un passo dopo l’altro, senza guardare il vuoto sotto di noi. Un piede davanti all’altro, a proteggersi dalla vertigine. Brividi di paura e bellezza. Luce nella notte. Lo sguardo dritto verso i nostri sogni: provare a realizzarli sarà la nostra vetta.
Tutte le puntate di Circuito Aperto sono disponibili sui canali Facebook e YouTube ERT FVG.
I GUARDIANI DEL NANGA. Storie di (stra)ordinario alpinismo
di Gioia Battista
con Nicola Ciaffoni
regia di Stefano Scherini
produzione: Mitmacher Teatro e Boteghes Lagazoi in collaborazione con Teatro del Carretto
Circuito Aperto è un’iniziativa dell’Ente Regionale Teatrale del Friuli Venezia Giulia
durata: 1h e 25’
Visto in streaming dal Teatro Candoni di Tolmezzo il 25 febbraio 2021