Negli anni in cui in Argentina non c’erano possibilità di fare progetti né da parte dei giovane né dai meno giovani, nasceva quasi senza accorgersene, senza programmarlo, il teatro del ‘teatrista’ Claudio Tolcachir.
Era il 2001, e la situazione dell’Argentina di quel tempo si conosce ormai bene.
In un quartiere periferico, un gruppo di attori, vecchi compagni di scuola, con mezzi precari, non per eroismo ma per piacere e divertimento, costituirono Timbre4: un teatro d’appartamento, fatto letteralmente in casa. Per accedervi bastava suonare il campanello.
Una nascita artigianale. C’era la crisi e ci si arrangiava. E il pubblico che accedeva al teatro porteño sedeva rasente agli attori, ai personaggi e alla storia rappresentata.
Il processo creativo è qui opera in parte collettiva in parte autorale, i personaggi sono comuni cittadini, presi dalla strada, dal quartiere, dalla città. Cuciti addosso agli attori recuperano un modo di lavorare all’antica, familiare come nella migliore tradizione teatrale italiana partenopea. Stabilendo così una relazione emotiva con il pubblico; comunicano attraverso la vulnerabilità della vita.
Claudio Tolcachir è ospite della 42^ edizione della Biennale Teatro di Venezia. Amatissimo dai giovani artisti che seguono il workshop da lui condotto (oltre la riconosciuta professionalità, ha sempre un bel sorriso, è affabile, incoraggiante), dedicato quest’anno al Macbeth di Shakespeare, ha portato in scena al Teatro Goldoni di Venezia il suo “El viento en un violín”.
Sul palco, assieme al suo gruppo di lavoro, c’era anche lui, nel ruolo di uno spassosissimo Darío.
“El viento en un violín” è una drammaturgia originale, non sperpera facili sentimentalismi e non rappresenta nemmeno un teatro consolatorio e rassicurante, ma è un teatro che sta e si consegna per quello che è.
Sta lì in quello che gli ha dato forma, e ci sta appieno e in pieno affondo. Nella dimensione quotidiana: la scena si svolge all’interno di tre appartamenti. Nei personaggi, comuni cittadini di città e periferia: due famiglie, uno psicoterapeuta, una coppia lesbica. Nella ricerca espressiva: la scrittura è attenta, vivace ma anche spicciola; il testo lascia una certa autonomia recitativa, inserendo poi l’elemento assurdo ma possibile attraverso l’intreccio, il gesto folle, e lo fa in maniera soprattutto comica. E infine la crisi, di cui si parla senza parlarne.
Non c’è separazione tra figura e sfondo, tra crisi interna ed esterna, le due sono inestricabili, coimpastate nel “presente nero e futuro nero” di fronte ai quali Darío si trova bloccato. Bloccato da se stesso e dalla madre che lo ha generato, incapace fino all’ultimo di lasciarlo camminare con le sue gambe e di amarlo così com’è: un po’ strano, un po’ colpevole di essere venuto al mondo e di essere sopravissuto – lui indolente e senza prospettive – al fratello, il gemello più forte.
Il mondo femminile è qui potente e risoluto ma non senza storpiature. Il mondo maschile è fragile e manca di carattere.
La madre di Darío (Miriam Odorico), nel suo delirio di onnipotenza, cerca di risolvere la vita al figlio, finendo quasi sempre per complicargliela, e ingaggiando pure uno psicoterapeuta non troppo costoso che, portato all’esasperazione, sceglierà di mettersi in aspettativa.
Aspettare. Trattenere il fiato e aspettare. Aspettare che qualcosa prenda vita.
Darío aspetta di trovare una soluzione ai propri drammi interiori, la madre aspetta che lui cresca e si faccia uomo. Celeste e Lena (Tamara Kipper e Inda Lavalle), innamorate l’una dell’altra, aspettano un bambino.
Lo aspettano dopo averlo estorto con la forza a Darío. Nell’impossibilità di congiungersi completamente si garantiscono così una famiglia, un futuro. A Lena era già stato portato via in passato, mentre per la schizofrenica Celeste è forse l’unica possibilità per questa vita. E così forse qualcosa cambia, o forse no. Ma intanto si sopravvive.
Divertente, comico, le storie si dispiegano simultanee sul palco accompagnate dagli spostamenti di luce, che ritmano le sfumature aggressive del vivere quotidiano, dove aggressivo non ha sempre una valenza negativa ma è anche una tensione d’amore.
Due ore di spettacolo davvero piacevoli, di un coinvolgimento immediato senza le pretese di tanti intellettualismi, che lascia il pubblico libero di scandagliare il fondo relazionale di quello che la storia restituisce. Una tale godibilità che, pensando a certe proposte italiane, vien da chiedersi perché spesso riusciamo a essere così tanto complicati.
El viento en un violín
testo e regia: Claudio Tolcachir
con la compagnia Timbre 4: Inda Lavalle, Tamara Kiper, Miriam Odorico, Araceli Dvoskin, Lautaro Perotti, Gonzalo Ruiz, Paula Ransernberg
assistente alla regia: Melissa Hermida
scene: Gonzalo Córdoba Estevez
luci: Omar Possemato
produzione: compagnia Timbre4//Jonathan Zak e Maxime Seugé
coproduzione: teatro Timbre 4, Festival International Santiago a mil, Tempo_Festival das Artes, Festival d’Automne à Paris, Maison des Arts et de la Culture de Créteil
con il supporto di: fondo Iberescena per la creazione congiunta con Teatro Solís (ROU), Producciones Teatrales Contemporáneas (E)
durata: 90’
applausi del pubblico: 2’ 15’’
Visto a Venezia, Teatro Goldoni, il 5 agosto 2013