Eccoci oggi con Enzo Vetrano e Stefano Randisi, novelli vincitori del Premio Le Maschere del teatro italiano 2011 per il miglior spettacolo di prosa con “I giganti della montagna”.
Abbiamo appena visto uno dei loro grandi successi, ancora una volta l’amatissimo conterraneo Pirandello in “L’uomo, la bestia e la virtù”, ripreso dopo cinque anni. Una commedia, un “apologo in tre atti”, tratto dalla novella “Richiamo all’obbligo”. Un’opera in cui prevale la farsa e che, come recita il titolo, ha come protagonisti tre maschere. L’uomo è il professor Paolino, che cela sotto l’ostentato perbenismo la tresca con la signora Perella, che per l’occasione indossa la maschera della virtù: quella cioè di una morigerata e pudica madre di famiglia, ammogliata con un capitano di marina da cui ha avuto un figlio e che, da vera bestia, convive con un’altra che non le si concede.
La farsa delle apparenze si rivela quando la donna rimane incinta ad opera, guarda un po’, del professor Paolino che dovrà, al di là di ogni morale, rimettere suo malgrado tutto a posto, convincendo i compaesani maldicenti che la donna è rimasta incinta del marito.
Ma attenzione: il tutto dovrà avvenire in una sola notte prima che il terribile capitano ritorni sulla sua nave.
Così, per far ciò, il professore da una parte gli fa preparare un afrodisiaco per stimolarne i sensi, e dall’altra inciterà la vergognosa amante a mostrare le sue grazie. Gli andrà bene, non prima di aver però mostrato la sua vera maschera, quella della bestia.
Tutto ciò accade, come è ovvio immaginare, in una Sicilia piena di pregiudizi, che i due registi, aiutati magistralmente dalle luci del compianto Maurizio Viani, immaginano in un grande armadio, vero e proprio arsenale delle apparizioni, dove personaggi, musiche e oggetti sono tutt’uno con il palcoscenico.
Eccoci allora, come dicevamo, davanti alla premiata ditta Vetrano e Randisi, allievi diretti del grande Leo de Berardinis, che dal 1995 sono i Diablogues, portando avanti un’idea precisa di scena. Nel loro teatro, che si rifà alla grande storia del capocomicato, convivono in egual misura tradizione e ricerca, in un miracolo scenico perfetto; e nello spettacolo questi aspetti sono visibilissimi.
E’ su questo che verte soprattutto la nostra curiosità.
Perché la scelta di mettere in scena frequentemente Pirandello?
Pirandello perché è nostro conterraneo, anche se abitiamo felicemente ad Imola, e siciliana è tutta la compagnia. Pirandello perché è stato spesso, a torto, considerato autore impegnativo, un intellettuale filosofeggiante più che un drammaturgo, e per noi invece è attualissimo. Considera che qui una obsoleta storia di corna ci consente di parlare del mondo di oggi fatto di apparenze. Piano piano nella storia disveliamo quello che veramente si cela sotto questa apparenza, e lo facciamo con leggerezza per un pubblico “totale” che comprende e apprezza .
In che modo utilizzate il suo linguaggio, diventato ormai desueto, pur nella sua classicità?
Il linguaggio viene smussato, pur lasciandolo intatto nella sua forza e musicalità, ne togliamo solo le asperità anacronistiche, mantenendo lo stile elegante.
Spiegateci in che modo nel vostro teatro convivono tradizione e ricerca.
Cerchiamo spesso, nell’impianto tradizionale, di immettere momenti di sospensione. Nello spettacolo che hai visto, la farsa ci permette di uscire dal naturalismo per costruire momenti surreali; insomma cerchiamo, quando il momento ce lo concede, di sparigliare la realtà per andarci più a fondo. Quando la donna, per esempio, nello spettacolo, deve farsi bella per il marito, noi la facciamo pitturare sino al ridicolo, mettendola su un tavolo che diventa quello di un’operazione chirurgica, appunto per dimostrare la “crudeltà” di Paolino, il protagonista. All’inizio tutti i personaggi vengono presentati come delle apparizioni e ad un certo punto sono le finestre-armadio che diventano protagoniste della scena. Dobbiamo dire che in questo ci ha aiutato molto Maurizio Viani, che da poco ci ha lasciato.
Come lavoravate con lui?
Per noi era come un terzo regista, arrivava a metà ma aveva la capacità di reinterpretare la scena abbinando la luce ai sentimenti.
In che modo la lezione di De Berardinis influenza le vostre scelte?
La sua lezione attraversa tutto il nostro lavoro. Con i nostri attori lavoriamo affinché non ci sia imitazione della realtà; l’interprete è quel personaggio, non fa finta di esserlo, solo in questo modo avviene il rapporto emotivo con il pubblico. Leo ci invitava ad essere veri sul palcoscenico, anche quando dovevamo esagerare nel grottesco, doveva sempre esserci una specie di stato di coscienza fortissimo in quello che facevamo, che non doveva essere mai didascalico. In questo senso anche le musiche non dovevano solo accompagnare le azioni, dovevano soprattutto evocarle, magari anche contraddicendo ciò che avveniva in scena. E poi non c’era teatro importante e teatro minimo, tutto il teatro, se fatto in questo modo, diventava grande teatro: Totò e Shakespeare potevano e dovevano convivere. Tanto che ne “I Giganti della montagna” abbiamo anche introdotto un omaggio a Taddeus Kantor.
E pure non esistevano parti importanti o parti minori, tanto che qui, come hai visto, Stefano interpreta un bambino, e ci puoi confermare che questa scelta non scade mai nel ridicolo.
Parlatemi un po’ del rapporto con Sgrosso e Bucci.
Ci siamo conosciuti con Leo, loro lavoravano già con lui, noi invece provenivamo dai Dagide, da maestri come Beppe Randazzo e Michele Perriera. Fu Emilio Vita che ebbe l’idea di metterci insieme, e così sono nati dal 1988 “Mondo di carta” e poi “Berretto a Sonagli”, “Anfitrione” che ha raccolto le quattro versioni del testo (Plauto, Moliere, Kleist e Giradoux), poi “Il mercante di Venezia” e “Le smanie della villeggiatura”, che ebbe molto successo: una serie di riletture di capolavori del repertorio classico davvero sempre originali, aggiungiamo noi. Abbiamo conosciuto e amato anche il loro deliziosissimo cane Rocco, che un giorno, uscito dal camerino, si presentò financo in scena.
E le vostre prossime produzioni?
Il futuro: per ora abbiamo messo in scena come regia ancora Pirandello con “Trovarsi”, con Mascia Musy, poi ci stiamo preparando in italiano con accento siciliano per un testo contemporaneo scritto da Franco Scaldati che già aveva attraversato il nostro “Fantasmi”. Si chiamerà “Totò e Vicè”, dove protagonisti sono due personaggi un po’ clochard, un po’ angeli che vivono tra vita e morte. In scena solo una panchina, e qualche candela.