11 febbraio 2009
Ho già detto molte volte di non essere per nulla tagliata per fare l’eroina. Un’eroina, al posto mio, con febbre e raffreddore, avrebbe stoicamente continuato a farsi tre ore di metro al giorno per frequentare una lezione di cinque ore, gambe tremanti e fronte grondante di sudore, e a chiunque le avesse chiesto “come stai?” avrebbe risposto con uno stanco sorriso “bene, grazie, sto bene”. Invece io, che sono l’antieroina, non sto bene per nulla, e stamane alle cinque e mezzo, dopo una notte sudaticcia e travagliata, ho capito che oggi non sarei andata a scuola. Questa è la prima assenza della mia vita a una lezione di mimo. Devo ammetterlo, un poco mi sento in colpa. Io non so se a voi succede lo stesso, ma a me accade, da sempre, da quando sono in grado di ricordarmelo, forse quindi dalla prima elementare, che ogni volta che riesco a strappare al mio furer interno (o, da piccola, ai miei genitori e alla tata) un giorno di riposo causa malattia, ecco, non appena passano le nove, non appena dunque le lezioni sono inconfutabilmente iniziate, comincio a sentirmi così bene che mi tocca dirmi: “eh, però forse oggi ci potevo andare, a scuola, in fondo non sto poi così male”.
Adesso, le cose sono due: o effettivamente ogni volta me ne sto a casa il giorno dopo che la malattia ha toccato il suo culmine, o il mio super-io, il mio furer interno, insomma quella cosa là che non transige su nulla e mi vorrebbe perfetta, ha un potere così forte su di me da influenzare anche la mia percezione della malattia. In entrambi i casi non credo di essere messa molto bene. E pensare che ho fatto anni e anni di psicoterapia. Figuriamoci come sarei stata senza.
Ma mentre io mi perdo in queste futili considerazioni e mentre gli insopportabili cani dei miei padroni di casa tentano di entrare nella mia stanza, stringendomi in un assedio sempre più insostenibile, i giorni passano e mi rendo conto che mi rimangono meno di 20 giorni londinesi, il che vuol dire: due lavatrici, due spese al supermercato, tre sabati da passare in giro, due domeniche e mezzo, e pochi, pochi muffin. Sono in grado di fare un bilancio? La risposta ovviamente è no, non sono in grado, ma d’altra parte chi se ne frega?
16 febbraio 2009
Una volta al mese Corinne organizza una “question session”, ossia due ore di lezione interamente dedicate alle domande degli allievi. Lei e Steve, insieme o a turno, rispondono. La question session non è esattamente una seduta di domande a ruota libera in cui ognuno dice quello che gli passa per la testa. Anzi. Le regole sono ben precise. Corinne valuta le domande una per una e non risponde a: domande stupide, domande fatte per dimostrare la propria cultura generale, domande che dimostrano che non si è letta la bibliografia necessaria… e infatti ogni allievo intelligente ci pensa due volte prima di porre una domanda (ma ci sono sempre i fessi di turno). Infine, se Corinne ritiene di aver già risposto in un altro momento alla domanda posta, risponde nuovamente ma anteponendo un sarcastico “I think I already said that…”.
Eppure le question sessions sono meravigliose perchè in queste occasioni Corinne e Steve mettono a disposizione la loro memoria, anche quella personale, sono disposti a raccontare come sono stati quegli incredibili anni passati vivendo nella stessa casa di Decroux, le loro ansie, le loro aspirazioni, i loro desideri: ti mettono tutto lì, con tanto di sorrisi nostalgici e piccoli aneddoti ai quali loro stessi, ripensandoci, sorridono ancora. E tu ti rendi conto che davvero è una fortuna incredibile assistere a questi racconti, e ti rendi conto anche che tutto questo ha un senso, la scuola, il modo in cui essa funziona, il fatto che non sia pubblicizzata… anche questo viene dal profondo insegnamento lasciato da Monsieur Decroux, come dice Corinne, e ti viene da essere ancora più fiera e orgogliosa di essere qua.
17 febbraio 2009
Oggi ho fatto all’incirca trenta spaccate in scivolata fingendomi cameriere acrobatico insieme ad altre 30 persone che facevano lo stesso in giro nella sala prove.
E pensare che quando, a 10 anni, capii che non avevo nessun futuro come ballerina, misi via anche l’idea di fare spaccata e menate varie. E adesso c’ho trent’anni e a dispetto di tutti quelli che per anni mi hanno detto che avevo il corpo pigro, il culo pesante, nessun talento fisico e che sarebbe stato meglio investire nelle mie qualità vocali, faccio una scivolata dopo l’altra, zompetto per cinque ore di fila e riesco a fare più addominali di seguito di un italiano medio, maschio, della mia età.
Non dico che sono diventata ‘er mejo dopo due mesi continuativi di mimo, ma semplicemente che tutti quelli che avevano scoraggiato la mia attività fisica dovrebbero vedermi oggi per capire quanto profondamente si fossero sbagliati. E il fatto che io abbia dei buoni risultati in questa disciplina è per me una soddisfazione così grande e così nuova che quasi non ci credo.
Mi sento per la prima volta orgogliosa di me, di quello che so fare col mio corpo, di come so far ridere e piangere attraverso di esso, e questo orgoglio mi fa venire voglia di studiare ancora di più, di essere ancora meglio. E più studio, più capisco quanto poco so, più voglio imparare. Una spirale dalla quale non so se uscirò mai, ma d’altra parte mi interessa uscirne?
Oggi, mentre stavo per andare via dopo la lezione, Corinne mi ha parlato in italiano. Mi dava le spalle mentre leggeva la posta e mi ha detto: “Non posso credere che te ne vai”. Nemmeno io ci posso credere.
21 febbraio 2009
Stasera partecipo a un festival di assolo con un numero che ho montato durante il mio soggiorno londinese. L’idea generalissima mi frullava nella testa da almeno un paio d’anni, ma è stato qua che finalmente sono riuscita a mettere insieme un po’ di pezzi, e stasera farò la prima presentazione in pubblico. Erano tanti anni che non usavo il corpo in maniera così spudorata all’interno di uno spettacolo, e il fatto che a trent’anni mi sia rimessa a farlo mi riempie di una strana eccitazione mista a compiacimento e un po’ di paura. E questo è solo il primo passo verso uno spettacolo nuovo che ho in mente di mettere a punto appena rientrata in Italia. Certo, due mesi in questo posto non sono sufficienti a rendermi autonoma nella tecnica, ma sicuramente bastano – e sono effettivamente bastati – a farmi capire quale direzione voglio prendere. E così va a finire che, in quest’ultima settimana di permanenza londinese, sarò così impegnata a lavorare, preparare, rimuginare, creare, che non potrò dedicarmi allo shopping selvaggio che avevo previsto…