Non è la fine! L’esplorazione urbana di Dom- tra natura e scheletri urbani

Non è la fine (ph: Carolina Farina)
Non è la fine (ph: Carolina Farina)

In chiusura del festival Attraversamenti Multipli, a Roma anche il debutto del nuovo spettacolo di Spellbound Contemporary Ballet

L’ultima giornata del festival Attraversamenti Multipli si conclude con una novità creata appositamente per l’occasione da Mauro Astolfi, l’ironico “Car practice”, alla cui prima assoluta, con la sua tradizionale ubiquità, sovrintende l’altra anima della compagnia, Valentina Marini, fresca della chiusura di Fuori Programma, ulteriore rassegna del contemporaneo romano di prima estate: “Un regalo ad Attraversamenti” lo definisce.
E se non fosse stato per l’impossibilità di Dom- (la cui camminata esplorativa “Non è la fine!” si è protratta dalle 18 fino alle 23,30) di addomesticare il tempo delle sue peregrinazioni, anche chi scrive avrebbe senz’altro assistito a quella prima, documentata dalle conturbanti immagini di Carolina Farina: una coppia di danzatori di Spellbound alle prese con una spudorata Panda grigia, parcheggiata fronte archi sulla spianata dell’Acquedotto Felice.

Ma, appunto, le esperienze di Dom- (con Valerio Sirna, Arianna Lodeserto e Leonardo Delogu c’è la performer Ozge Sahin) non possono essere troncate a metà strada, perché anche nella forma più scarna della esplorazione urbana, priva delle piccole, equivoche, destabilizzanti torsioni rappresentative che costellano il più strutturato “L’uomo che cammina“, rivendicano sempre una loro linea drammaturgica, sanno agglutinarsi e distendersi, si compiacciono di un acme, come in questo caso, carico di meraviglia.

Il percorso infatti, iniziato dal Parco di Tor Fiscale, subito prende una tangente centrifuga, si immette nella metropolitana e ci scarica alla periferia dell’Anagnina, ci conduce attraverso i soliti, persino risaputi ma non per questo meno incredibili, campi di stoppie romani, a perdita d’occhio, qui bruciacchiati, qui impreziositi da susini in frutto, ci schiaccia sotto il sordo cannone spara-macchine del Grande Raccordo Anulare, l’autostrada che stringe la città a quattro corsie. E lo tocca quasi, quel flusso, in un dettaglio smemorato di marciapiedi, che solo una ringhiera da balcone separa dal fiotto dei veicoli: e ci accorgiamo che, accanto a quel mostro, hanno proliferato villette, guancia a guancia con i viadotti e le paratie che sostengono l’asfalto, non tanto dissimili, nella loro dolente vitalità, dalle baracche che si appoggiavano agli archi dell’acquedotto romano, ora ‘bonificate’. Villette con vigili botoli da guardia, queste, e vezzose decorazioni alle pareti, edicole sacre, croci di vittime della strada, antifurti all’ultimo grido e occasionali depositi di elettrodomestici fuori uso.

Ma l’acme che si diceva è quel capolavoro della nuova romanità che è la vela di Calatrava, struttura faraonica progettata dall’architetto spagnolo per i Mondiali di nuoto del 2009, mai portata a compimento e passata di riprogettazione in rimodulazione, di rifinanziamento in ricapitalizzazione, ingurgitando (è Sirna a riassumere la storia) più di undici volte i fondi previsti per l’edificazione per conservarsi tuttora allo stato di incompiuto resto.
È impossibile accedere al luogo, perché l’Università di Tor Vergata ha passato la proprietà al pubblico demanio, ma se avessimo avuto l’ardire di attraversare uno dei buchi della recinzione e avessimo, curva dopo curva, aggirato gli sbancamenti, percorso la terra battuta dalle ruspe (non lo senti, il silenzio della campagna?), ci saremmo inoltrati in un malinconico ma superbo scheletro prenatale, non immemore degli anfiteatri a gradoni (per ora semplici mensole), e dei larghi spazi coperti a costolature come il vecchio cinema Airone di Adalberto Libera, ventre di pescecane, dove Pinocchio vedeva, come davvero avremmo visto, se vi avessimo messo piede, una tenue lucina in fondo, in fondo, l’ultimo moccolo di Geppetto che aspetta una fine – che non arriverà.

Starnutiti fuori dal mostro, tanti passi ancora aspettano il camminante, rotatorie, e una strada dritta infinita che, ormai è notte, ripete lampioni a perdita d’occhio, poi una croce di acciaio solitaria sul sagrato che fu della giornata della gioventù di Wojtyła. Sfilandola sulla destra, la schiena un po’ dolorante, la fame che non avevamo previsto un po’ troppo insistente, ci accorgiamo una volta di più che quello sguardo puntato che solitamente tendiamo verso l’obiettivo del nostro spostamento (lo sguardo carnivoro, lo chiamano), è diventato privo di tensione, ma non per questo passivo, si è allargato a centottanta gradi, come un erbivoro, e anche di più: percepiamo l’amico silenzioso, lo sconosciuto arrancante dietro di noi, la presenza della ragazza leggera che ci galleggia accanto nel lieve fruscio dei pantaloni rosa, con cui abbiamo saputo condividere perseveranti un lungo silenzio, il filo giallo che Sahin trascina in mezzo alla fila che formiamo, una delle tracce delle nostre traiettorie sulla strada. L’angolo dello sguardo, che la camminata dolcemente spiana, amplia il suo giro, esorbita il campo visivo, torna su sé stesso, si avvita, e ci rientra dentro.
Questa è la pratica che hanno inventato, o trascinato alla portata di compagni occasionali, quelli di Dom-.

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