Al Teatro Palladium di Roma, la sperimentazione di Fridman ispirata dalla madre, nata con la sindrome di Arnold Chiari
Da un qualche pianeta lontano atterra lieve sul palco del Teatro Palladium, con movimenti a spirale, una figura. È motorizzata, ha uno scooter elettrico a quattro ruote, di quelli per persone con ridotta mobilità: una mini navicella spaziale. L’alieno – il corpo tatuato come da scaglie, arabeschi, rotelle – scivola dalla pedana, lentamente, prende infine contatto con la Terra, non prima di aver innalzato contro la luce dei proiettori di fondo lo scandalo di due piedi scolpiti in una forma inconsueta, grumosa.
Non tarderà molto a entrare una seconda figura, egualmente istoriata, ad abbordare lo scooter, a estrarre da esso due lunghe antenne: stampelle.
I due corpi, a cui è estranea ogni forma di esteriore prestanza fisica, che presentano ai proiettori profili addirittura emaciati, talvolta segnati da una sofferenza che, braccia levate al cielo, palme in su, può far pensare a quella di due cristi, entrano in contatto, misurano la propria fisicità. Non nella lotta, è nell’equilibrio che si incontrano: costruiscono possibili unioni, sempre fluide ma sezionate da momenti statici e, nell’economia dell’intera durata, interrotte da un paio di cesure nette tanto nella musica (non tematica, d’ambiente, dai bassi profondi e dalle larghe campiture agogiche, ora timbricamente marezzata nella base elettronica da tracce di strumenti acustici, voci, presenze di oggetti) e nelle luci (di Yaron Abulafia, semplici e meravigliose, drammaturgicamente consapevoli, anzi creatrici esse stesse di ambienti ora aurorali, ora diurni, nello spazio neutro della scena, capaci di simulare un’atmosfera dalla gravità inconsueta).
«Quando sono stato chiamato dalla Vertigo Dance Company – confessava Sharon Fridman, danzatore e coreografo israeliano ora con base spagnola, presentando il suo precedente “Shape on us”, del 2020 – a creare una pièce con “professional and functionally diverse dancers“, il mio primo pensiero si è rivolto a tutto ciò che non avrei potuto fare». Salvo poi operare un ribaltamento di prospettiva, arrivando a concludere che lavorare con persone dalle diverse abilità aveva portato in brevissimo tempo alla scoperta di possibilità diverse di investigazione sul movimento, sulla forma. E questa era, dice, “pure choreography“.
“Go figure”, in scena ora per la stagione di “Orbita” a Roma e debuttato in quel di Oriente/Occidente nell’autunno del ’23, è in un certo senso uno spin off di quell’esperienza con la disabilità, a iniziare dai due danzatori, estratti dal gruppo di lavoro, più cospicuo, di “Shape on us”.
Essi, quelli che abbiamo in modo forse indimostrabile e pertanto metaforico definito “alieni”, sono Shmuel Dvir Cohen, affetto da una sindrome neurologica che influisce sul controllo della muscolatura, e Tomer Navot.
Qui la tecnica specifica sviluppata dal coreografo, derivata dalla pratica della Contact Improvisation, di cui Navot è insegnante, è sfruttata in quel tentativo di equilibrio che si consuma, dopo gli ingressi che si dicevano, per lo più a centro palco.
È qui che l’esperimento di trovarsi e di consumarsi insieme ha luogo: è il centro di un nuovo mondo? Un esperimento di rimodulazione degli spazi, delle forze, della resistenza (alla gravità, alla grana del tempo, all’attrito della pelle, all’introduzione nella dinamica dei corpi delle tecnologie degli strumenti di deambulazione)?
Quei prolungamenti degli arti, le stampelle, si staccano ben presto dagli avambracci, si pongono a puntello contro il suolo, contro il ventre, di questo nuovo gruppo umano minimo; e così il lirismo puro delle forme sulla musica e sulla materia impalpabile della luce si ibrida con l’oggetto concreto, d’alluminio – almeno fino a che esso si defila per lasciare “nudi” i due corpi.
Attorno al piccolo mondo continua intanto a orbitare autonomamente lo scooter, instancabile, tenero come un piccolo nume tutelare che circonda d’un abbraccio la coppia eppur impassibile come un satellite lasciato a sé stesso al suo moto ellittico, per cui entra ed esce dagli spazi illuminati, si eclissa nell’ombra come un asteroide nell’oscurità dello spazio siderale e riguadagna la ribalta della luce.
L’evoluzione del rapporto tra i corpi è, tuttavia, orizzontale, anche quando la difficoltà delle posture si fa ardua (un groviglio, il loro, che a volte mostra tratti di estenuata ricercatezza estetica, bizantinismi al limite dell’esornativo): in quel flusso che il contatto crea e ricrea il percorso è potenzialmente senza meta, senza uno scioglimento che suggerisca soluzioni. Tesi e antitesi delle masse in campo non esauriscono dunque il loro contrapporsi, intervallato da quelle immagini di cui già s’è detto, delle braccia levate al cielo, a implorare o a richiamare l’attenzione di un livello ulteriore, che però non dà segno di vita. Un dio che non risponde condanna gli esseri a tentare e ritentare, forse senza fine, come se l’unico esito plausibile del tentativo di trovarsi sia nel proseguire quel tentativo, in una condizione di disperata fiducia – mentre il pubblico, conquistato dalla smaltata confezione dell’opera non cede alla trance dell’abbandono, né al trasporto, ma galleggia in un’intercapedine a metà strada tra la partecipazione e la contemplazione.
In un momento convenuto, la navicella dello scooter è nuovamente raggiunta, agguantata stavolta dai due insieme i quali, così come avevano fatto ingresso, escono di scena, spingendo il loro veicolo a raggiungere una pacata ma irreversibile velocità di fuga.
Go figure
Coreografia e direzione artistica Sharon Fridman
Assistente alla direzione artistica Tamar Mayzlish
Interpreti Shmuel Dvir Cohen, Tomer Navot
Musica Noam Helfer
Luci Yaron Abulafia
Costumi Miki Avni
durata: 50′
applausi del pubblico: 2′
Visto a Roma, Teatro Palladium, il 14 marzo 2024