Stabat Mater di Liv Ferracchiati: l’identità oltre il fantasma materno

Stabat Mater (photo: Andrea Macchia)
Stabat Mater (photo: Andrea Macchia)

Ciò che colpisce nella “Trilogia sull’identità” di Liv Ferracchiati è la scrittura ritmata, frammentata eppure incisiva, fatta di paratassi, pause e inversioni. Botta e risposta rapidi. Uno scambio tra i personaggi che diventa scavo, indagine maieutica, partitura psicanalitica. Frasi che s’interrompono in modo breve e secco. Accostamenti contrastanti – senza il culto idolatrico di musicalità e armonia – per perseguire semplicità e schiettezza. Sapidità intellettuale, senza fronzoli emozionali.

Puntare all’essenza per ritrovarsi. Per costruire quello che Donald Winnicott chiamava il «Vero Sé», che consente di essere creativi e spontanei.
Alla consapevolezza si giunge per sottrazione. In Ferracchiati la sottrazione inizia dal nome, Liv che sostituisce Livia, a scompaginare i cliché con cui ci illudiamo di inquadrare la realtà. È ciò che caratterizza anche il suo teatro. Mille domande, altrettante possibilità di risposta: dovrebbero definire un identikit, diventano ritratto disegnato sull’acqua, che si perde nel gioco delle dissolvenze.

“Stabat mater”, Premio Hystrio Nuove scritture di Scena 2017, secondo capitolo della trilogia, fa seguito a “Peter Pan guarda sotto le gonne” (2016) e precede “Un eschimese in Amazzonia” (Premio Scenario 2017). L’intera trilogia firmata dalla compagnia The Baby Walk è stata riproposta all’Elfo Puccini di Milano.

In “Stabat mater” Andrea (Alice Raffaelli) è una donna nella penombra a petto nudo. Repentinamente indossa abiti maschili. Andrea, personaggio dal nome ambigenere, tuona contro un corpo femminile che la limita. Prorompe in un grido di dolore. Riversa sul palco bestemmie e ironia perché quel dolore non diventi disperazione.

La scenografia confonde un interno domestico (tavolo, sedie e divano) e lo studio di una psicanalista. Confusi nello spazio scenico, ci sono anche i due sedili anteriori di un’auto. Sulla destra, seminascosta, una scrivania rimanda all’attività di scrittrice della protagonista. Ma ciò che campeggia a dominare la scena è un maxischermo cinematografico, che pare immortalare in presa diretta una donna (Laura Marinoni) che si rivelerà la madre di Andrea.

Lo spettacolo è un continuo oscillare tra passato e presente, con un dosato ricorso al flashback. Percorriamo le tappe del rapporto tra Andrea e la giovane donna amata (Linda Caridi), viso acqua e sapone che per paradosso ne esalta l’eros. L’incontro diventa innamoramento, relazione, convivenza. Emerge presto qualche scricchiolio, preludio di una futura separazione.
Il personaggio femminile animato dalla Caridi svela una personalità magmatica e inclinazioni sessuali inafferrabili.
Le varie sequenze di questa storia sono inframmezzate dalle sedute psicanalitiche di Andrea dall’analista (Chiara Leoncini) di cui finisce per innamorarsi.

Interagire con il proprio sé e con quello altrui. Definirsi nella pienezza. Un percorso di autodeterminazione che ci riguarda. Forse è per questo che le luci disegnate da Giacomo Marettelli Priorelli lambiscono episodicamente anche la platea.

La pietra d’inciampo qui è la figura materna. Emerge tutta la difficoltà a tagliare il cordone ombelicale anche da adulti, a elaborare le differenze. Il Falso Sé, quello che ci rende accondiscendenti ai bisogni e desideri altrui invece che ai nostri, ci fa sentire inutili e ci impedisce di esistere nella pienezza. Il Falso Sé da sbaragliare qui è la madre, proposta come gigantografia ingombrante. Sembra un fermo fotografico, e invece si anima, adocchia, interviene. Telefona, controlla, giudica. È tanto più pericolosa quanto più si mostra delicata ed empatica. È tanto più invasiva quanto più sembra farsi da parte. Grande fratello al femminile, Super-Io, grande fardello.

In “Stabat mater” gli intrecci e i personaggi sono presentati con naturalezza. È centrale la parola come atto creativo e (auto) definizione. La parola si scarnifica e si fa verità. Sul palco le protagoniste si spogliano e si rivestono, in una perenne metamorfosi. Gli abiti dismessi rimangono sul parquet, vestigi della fatica di crescere, come la pelle del serpente dopo la muta.

Diceva Oscar Wilde «ogni uomo mente, ma dategli una maschera e sarà sincero». Qui le maschere sono i tratti distintivi delle identità frammentate che ci portiamo appresso, nel tentativo incessante di essere noi stessi, artefici del nostro destino e della nostra felicità.

Le scelte registiche di Liv Ferracchiati chiariscono in modo apprezzabile i simboli che improntano il senso d’identità. Il gioco di rimbalzi tra i personaggi in presenza e la madre in video rende il lavoro brioso ed esalta la freschezza del testo, impostato su un registro leggero, a tratti asettico, privo di carichi emozionali.

STABAT MATER
Trilogia sull’Identità – Capitolo II
scritto e diretto da Liv Ferracchiati
aiuto regia e costumi Laura Dondi
dramaturg di scena Greta Cappelletti
scene e foto di scena Lucia Menegazzo
luci Giacomo Marettelli Priorelli
suono Giacomo Agnifili
con Chiara Leoncini, Linda Caridi, Alice Raffaelli
e la partecipazione video di Laura Marinoni
uno spettacolo The Baby Walk
produzione Centro Teatrale MaMiMò e Teatro Stabile dell’Umbria – Ternifestival
Premio Hystrio Nuove Scritture di Scena 2017

durata: 1h 25’
applausi del pubblico: 2’ 50”

Visto a Milano, Teatro Elfo Puccini, il 7 marzo 2019

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