Una due giorni intensa quella che Teatri di Vetro ha dedicato alla danza autoriale italiana in chiusura di rassegna, il 26 e 27 maggio scorsi, con un convegno e sette spettacoli, anche se altri erano sparsi lungo la durata del festival.
Un appuntamento che ha evidenziato i problemi che affliggono la danza italiana in tutti i settori, da quello creativo a quello del pensiero critico e organizzativo.
Partiamo dal convegno. Iniziativa importante di cui dobbiamo dare atto al Core, associazione di recente nascita ma già molto presente e attiva; argomenti interessanti anche per il fatto che sono abbastanza rari questi momenti di confronto che permettono di contestualizzare, osservare e tirare le fila di un panorama frammentato in mille sfaccettature; interessante anche la suddivisione dei lavori tra i diversi campi legati alla produzione coreografica: quello critico e storico, quello del pensiero coreografico (con un confronto tra esponenti di diverse generazioni: Michele di Stefano e Cristina Rizzo da una parte, Marco D’Agostin, Chiara Frigo, Francesca Pennini dall’altro), e quello organizzativo.
Bella la continua apertura al pubblico presente, che ha potuto intervenire costantemente, facendo sentire la sua voce. Gli operatori culturali presenti hanno veramente offerto uno sguardo aperto e vivace verso nuove strategie da adottare nel rapporto con le istituzioni, indicando strade innovative di progettualità e intervento che non possono prescindere dall’apertura verso l’Europa.
Su tutti ci piace ricordare l’intervento di Roberto Casarotto, sul percorso che ha seguito a Bassano con il grande aggancio alla scena europea; la forza di Casarotto è stata la costruzione di una reputazione europea di fronte alla quale poi il Comune non si è potuto tirare indietro. Con il suo CSC, Centro per la scena contemporanea, è entrato a far parte dell’EDN, l’European Dancehouse Network, la prestigiosa rete europea delle Case della Danza. E’ stato il primo e finora unico centro italiano ad essere accolto nel network, che comprende alcuni fra i centri più rinomati e attivi nella scena della danza contemporanea europea: tra gli altri a Londra, Parigi, Vienna, Oslo, Stoccolma e Lione.
La giornata dedicata al pensiero critico è stata invece la dimostrazione di una autoreferenzialità che non permette alle idee di girare, che non apre al confronto e non immette linfa nuova. Solo la voce di Susanne Franco, ricercatrice dell’università di Salerno e docente IUAV a Venezia, ha aperto orizzonti, ha offerto suggestioni, ha lanciato ponti a cui agganciarsi per un fare che esuli dall’orizzonte ristretto dei confini personali e geografici. Una esperienza, la sua, profondamente professionale, tipica di persone che si rapportano con una scena sovranazionale e non restano chiuse dentro i propri giri mentali.
Anche la visione dei brani proposti in serale ha lasciato aperte molte domande. Tutti “soli”, tranne il duetto presentato da Chiara Frigo, e tutti al femminile; messe in scena ben curate ma non sostenute da un pensiero coreografico forte.
La pratica ormai diffusa di presentare i “primi studi” di un progetto in divenire come fossero brani conclusi sicuramente non aiuta: la necessità di creare comunque una messa in scena quando ancora il lavoro è fragile non aiuta il lavoro stesso, che spesso risulta esserne sovrastato e conseguentemente meno garantito nella sua autenticità. E’ il caso di “Byrd’s Eye View” di Simona Bertozzi, appunti coreografici in preparazione per il quarto e ultimo episodio del progetto “Homo Ludens”, e di “Waiting for suite-hope” di Chiara Frigo, capitolo primo di un progetto più ampio dal nome appunto “Suite-Hope”. Mentre nel primo si intuisce comunque un solco già segnato e una ricerca nel corpo e nel gesto frutto di un lavoro profondo, nel secondo la fragilità esposta è veramente disarmante.
Due gli interventi invece più strutturati e compiuti, “Duplica” di Paola Bianchi e “Ophelia” di Alessandra Cristiani. Il primo un interessante lavoro sulla luce e sull’ombra come possibilità di duplicazione del corpo, che perde i suoi contorni e la sua definizione, costretto quindi a cercarsi e a cercare di definirsi. Il secondo un emozionale lavoro sulla figura di Ofelia e del suo dramma, che prende spunto dal quadro preraffaellita di J.E. Millais. Il corpo nudo rivive la tragedia, nella sua carnalità silenziosa e sofferta, diventando un luogo che assomma in sé tutte le sofferenze, i fiori che piano piano vanno a decorare la scena la rendono un altare per il suo sacrificio. Sicuramente non ha giovato alla resa di questo brano, che aveva bisogno di una intimità nella visione, la struttura particolare e dispersiva del Palladium.
Una breve nota sugli altri lavori in programma. Lirico il pezzo di Benedetta Capanna ambientato in uno dei bei Lotti della Garbatella, fluida e morbida la sua danza, ma un po’ debole il pretesto coreografico e la necessità comunicativa. Più contemporaneo il brano presentato da Marta Sponzilli, variato tra cambi di abito che vogliono sottolineare una molteplicità di corpi e figure, ma che non riesce ad arrivare a una profondità che, ancora una volta, possa andare oltre la mera esibizione di sé.
Di impatto visivo il lavoro di Maria Paola Zedda, ambientato nel cortile della Casa dei Bimbi, un corpo piegato e urlante per le ferite di una solitudine impossibile da colmare, come racconta la voce recitante che accompagna la performance, ma forse eccessivo in una dimensione tragica troppo raccontata ed esposta per risultare veramente credibile.
Alla fine restano tanti interrogativi su quale possa essere la definizione di “coreografia”, sulla funzione di una drammaturgia della danza, ma anche sulla carenza, forse, di una formazione che veramente possa dare strumenti per affrontare la specificità della creazione di un pezzo coreografico.