Dopo l’applaudita prima esecuzione in forma scenica del “Libro Ottavo – Canti Guerrieri” da Claudio Monteverdi dei Muta Imago, e il suo successivo approdo con altrettanto successo a Romaeuropa festival, incontriamo colui che è stato alchimista discreto, fin dal 2004, nel permettere confronti suggestivi che offrissero prospettive sorprendenti a un genere considerato di nicchia, ma che grazie alla sue intuizioni ha captato nuove e rinnovate attenzione e curiosità, acquisendo linfa vitale.
Stiamo parlando del teatro musicale, e di Alessandro Taverna, critico culturale, studioso, raffinato intellettuale, che da oltre un decennio è il responsabile di molti progetti artistici alla Sagra Musicale Malatestiana di Rimini, che sta veleggiando (nel 2019) alla sua 70^ edizione.
Si è stati infatti capaci di dare spazio anche alla musica classica nella patria di Federico Fellini, in quel luogo che guarda verso il mare, con la bellezza già recuperata dai bombardamenti del Tempio Malatestiano con i suoi simboli pagani, e dove ora, dopo il Cinema Fulgor, si attende presto la riapertura del Teatro Galli.
Ripercorriamo dunque assieme ad Alessandro Taverna questi anni, per fare insieme un viaggio nel tempo e nella dimensione poetica, creativa e innovativa del teatro musicale.
Come sei approdato a Rimini e cosa hai sentito che avresti potuto apportare di nuovo accettando questa sfida?
Ho cominciato a frequentare la Sagra Musicale Malatestiana da critico musicale. Vi prevalevano cartelloni incentrati su concerti di grandi orchestre e di grandi solisti. Con Giampiero Piscaglia, direttore e responsabile dell’intero comparto culturale a Rimini, si è stabilita un’intesa per cui mi sono trovato a fare da suggeritore di temi e programmi con cui caratterizzare il cartellone musicale, per aprire l’orizzonte a ipotesi che sconfinassero anche nel teatro.
Hai pensato da subito che avrebbe funzionato la scommessa, questa mescolanza alchemica tra musica e teatro, che ormai è diventa una conferma, fin da quel 2004 che vedeva Luca Ronconi con Massimo Popolizio in scena per incontrare Richard Strauss?
Più che il successo, al tempo c’era la speranza che Luca Ronconi accettasse la provocazione: l’idea di tornare, per una sera, a recitare. E praticamente gratis. Sapevo che amava il teatro di Hofmannsthal e la musica di Strauss; e scavando nell’epistolario tra il letterato e il compositore, Ronconi sarebbe stato ideale per inscenare quel gioco di diffidenze e di incomprensioni che in genere passano inosservate. Lui era la voce di Strauss e Popolizio era la voce di Hofmannsthal, mentre una giovane pianista suonava stralci dagli spartiti straussiani. Fu una serata eccezionale, perché non prevedeva nessuna possibilità di ripresa.
Tornando alla musica e al teatro – e anche alla poesia – mi pare che si soffra di quel morbo diagnosticato un secolo fa molto acutamente da Friedrich Nietzsche:
Disgraziatamente siamo abituati a fruire dell’arte nella solitudine: assurdità delle gallerie d’arte e delle sale da concerto. Isolare le arti è una sventura moderna.
A furia di isolare si rischia di vedere sempre meno e di non sentire quasi più niente. Prendiamo i madrigali di Monteverdi al centro della produzione di quest’anno. Oggi rischia di sfuggirci in quale misura questi madrigali potessero essere anche un piacere esteso ai cinque sensi. Erano poesia in 3D. La musica forniva gli effetti speciali. Per i presenti – non li chiamo nemmeno spettatori – era un’esperienza totalizzante.
Nel 2011 c’è l’incontro con il Teatro Valdoca di Cesare Ronconi e Mariangela Gualtieri. Ma cosa era successo, prima?
Ci sono state cinque edizioni della Sagra segnate dai progetti con un regista d’opera, Denis Krief, disposto a sfidare le drammaturgie musicali che, anno dopo anno, gli erano proposte. La scelta è sempre caduta su pezzi oggi classificabili come esemplari che non appartengono al genere del teatro musicale vero e proprio.
La scommessa era di far saltar fuori quella scena invisibile, quel teatro involontario che si nascondeva in questi pezzi. Ma, certo, per far questo era necessario uno spazio alternativo. A furia di cercare, ecco trovato quel parallelepipedo che oggi si chiama la Sala Pamphili, ribattezzata così in omaggio al cardinale che, per amore del giovane Händel e della sua musica, scrisse il libretto dell’oratorio “La Bellezza ravveduta”, messo in scena dieci anni fa.
L’incontro con il teatro di ricerca è nato dalla constatazione che un simile percorso, pur tanto apprezzato nello scardinare le forme convenzionali del teatro d’opera, finiva per ricalcare la logica produttiva del teatro d’opera. Negli anni avevo assistito a molti tentativi, più o meno riusciti, di avvicinare all’opera il teatro d’avanguardia. A Rimini sarebbe stato interessante provare a percorrere la strada inversa.
Il primo passo fu, come ricordi, con il Teatro Valdoca, per ricollocare la visionarietà di un compositore francese rimosso dalla scena del Novecento, Jean Barraqué, per tutta la vita ossessionato dall’idea di tradurre in pezzi musicali, di formato sempre diverso, il romanzo di Broch, “La morte di Virgilio”.
Dopo Valdoca decidi uno scarto generazionale importante e di territorio, spingendoti fin nella capitale: chiami i Santasangre, con cui nasce qualcosa di magico, “Harawi” di Olivier Messiaen.
Trovare pezzi che potessero stimolare e fossero nella misura produttiva di un gruppo teatrale: ecco qual è stata la nuova missione alla base di tutte le proposte.
Mi ha sempre colpito molto la ramificazione e la ricchezza di un discorso accademico sul nuovo teatro che però non è messo in condizione di crescere, per la mancanza di commissioni di un certo respiro.
Ed ecco poi l’incontro con i veneti Anagoor, che costruiscono “Il Palazzo di Atlante”: un’altra magia. L’occasione che permette alla Sagra Malatestiana di rianimare, seppur nel solo ridotto, il Teatro Galli. Raccontaci cos’è avvenuto in questo incontro dalle tante sfaccettature…
“Il Palazzo di Atlante” è nato grazie ai fondi europei destinati alla valorizzazione del restauro del Ridotto del Teatro. Ne abbiamo usati una parte per dare vita ad una commissione che gli Anagoor sembravano aspettare da tempo: il debutto nel teatro musicale, e per giunta con un’opera seicentesca ispirata all’Orlando Furioso.
I vincoli della sovrintendenza sull’uso del Ridotto del Galli si sono rivelati un elemento di forza dello spettacolo. Mi auguro di trovare le condizioni per portarlo un giorno a casa, a Palazzo Barberini, a Roma, dove l’opera vide la luce.
Ritorni in Romagna con Città di Ebla di Claudio Angelini per “Suite Michelangelo”; e qui si parla davvero di alchimie per l’esattezza quasi da scienza della compagnia di Forlì.
È stato lo stesso anno di “Palazzo di Atlante”! Due nuove produzioni nell’arco di un mese. Qui, oltre al richiamo delle rime di Michelangelo e della musica ultimativa di Šostakovič, c’era lo scrupolo di affidare a Angelini come ‘performer attivo’ non solo il cantante ma anche l’interprete che suonava il pianoforte, alla fine cucita con tutta la struttura immaginata da Città di Ebla.
Solo nel 2014 vengono convocati coloro che forse si poteva pensare potessero essere coinvolti molto prima, quella compagnia di bandiera di Rimini: i Motus, che realizzano “King Arthur”…
In realtà si era pensato a loro per il progetto dedicato a “Hyperion”. Ma i Motus confessarono la loro inclinazione per il barocco. E così ecco la proposta di un dramma di John Dryden dove la musica è un attrezzo scenico e i personaggi principali non sono quelli che cantano. “King Arthur” è un esempio di teatro musicale lontanissimo dalle forme con cui siamo abituati a pensare il mondo del melodramma.
È del 2015 il primo incontro con Muta Imago, con l’”Hyperion”, relazione che si è riannodata nel 2017 con il recentissimo “Libro Ottavo – Canti Guerrieri”: squadra vincente non si cambia?
Ad un certo punto è necessario superare la sensazionalità della “prima volta”, del “debutto” e pensare ad una forma di continuità che serva come stimolo di crescita.
Ed ecco arrivare il 2016…
È stato l’anno di una coppia di video artisti: Daniele Spanò e Luca Brinchi, invitati a confrontarsi con i versi dell’”Aminta” di Tasso. La commissione era ancora una volta diversa: c’era un dramma pastorale di fine Cinquecento che quattro secoli fa faceva parte di una grande festa in un palazzo fiorentino, durante la quale venivano dedicati al mito di Orfeo cinque intermezzi musicali. Bisognava ristabilire il nesso.
Spanò e Brinchi hanno trasformato l’Aminta in una specie di grande istallazione cinetica che ha avuto un debutto autonomo al Festival Vie ed è stata l’occasione per lavorare insieme con Erika Galli e Martina Ruggeri di Industria Indipendente. Sono felice che l’invito al dramma pastorale di Tasso abbia causato un colpo di fulmine per i classici, con l’ideazione per il Teatro di Roma di una “Trilogia dell’Amore” che toccherà a breve la “Vita Nova” di Dante e “Mirra” di Alfieri, rispettando quell’inedito formato nato a Rimini.
Lungo questo cammino, l’incontro con Romaeuropa Festival…
L’attenzione di Romaeuropa è stata la dimostrazione che il percorso può essere fertile di commistioni di pubblico.
Quanto di tuo si può trovare in queste alchimie musical/teatrali?
Tutte queste esperienze – e sono grato a Rimini che ha permesso di farle nascere – vivono di idee mai neutre, e molto emotive, che costeggiano e attraversano musica, poesia, letteratura, filosofia, arte figurative. Ho avuto la fortuna all’università di avere maestri che non avevano paura dello sconfinamento disciplinare. Penso ad Ezio Raimondi e Carlo Ginzburg, che rinviavano all’esempio di Roberto Longhi, Walter Benjamin, Aby Warburg…
Il 2018 si annuncia un anno importante per Rimini: la riapertura del Teatro Galli. Come vi state preparando all’evento?
Una sala all’italiana, rifatta com’era prima dei bombardamenti, è un invito a confrontarsi con il repertorio operistico. Ma appunto non andrebbe dimenticato che il fenomeno del teatro musicale, come si è dimostrato in tutti questi anni, è per sua natura complesso, plurale, impuro.