Da Teatro Periferico a Karakorum, a Luoghi (non) Comuni è di scena la narrazione

Vasi comunicanti (ph: Sina Pouyan)
Vasi comunicanti (ph: Sina Pouyan)

Focus sulla follia con Apnea Cerebrale. E nei convegni si parla di disabilità e imprese culturali

Con addosso le sensazioni della guerra in Palestina, del dramma delle bombe, dei morti e dei profughi, in un passaggio storico in cui anche i cambiamenti climatici stanno esasperando il dramma delle migrazioni, ci pare doveroso partire da “Abdoulaye e Mamadou non sono morti” per il resoconto finale di Luoghi (non) Comuni, il festival di associazione Etre che si è chiuso lo scorso 29 ottobre a Cassano d’Adda.

Negli spazi polivalenti del TeCa (Teatro Cassanese) “Abdoulaye e Mamadou non sono morti” di Teatro Periferico è la storia di un viaggio e di un delirio. La lettura scenica orchestrata da Siaka Conde, Abdoulaye Ba, Bintou Quattara e Dario Villa ci getta tra le onde del Mediterraneo. Al centro due giovanissimi amici, sospesi tra sogni e ricordi d’infanzia, tra paura e oblio.
Tratto dal libro “In Inferna” di Ba, il testo di Villa, menzione speciale al bando “Costruzioni Fantastiche”, è una storia ordinaria di flussi migratori originati dalla dilagante corruzione, da immotivate disuguaglianze e abnormi ingiustizie.
Ritroviamo, con il valore aggiunto dell’immediatezza teatrale, le atmosfere e la tensione drammatica dell’apprezzatissimo film “Io capitano” di Matteo Garrone: pick-up pieni di vite allo sbaraglio lanciati nel deserto a tutta velocità; ricatti di militari stracarichi di armi; le piaghe della droga e degli abusi sessuali; la violenza degli assassinii e dei morti abbandonati nelle strade. E ancora, prigioni e vessazioni, la fame, la sete, e neppure un angolo per orinare.
C’è il fascino della fiaba in questa storia per ragazzi che cita Collodi, che non edulcora e non tace. Che suscita lo scambio e l’empatia. Che unisce attori e pubblico in un rito che si addentra nel razzismo e nella malvagità umana.
La morte si stempera nell’orizzonte onirico dalle luci, sfuma in colori fiabeschi. Questo paradosso la rende ancora più vera.
Il paradiso o l’inferno. Vivere o morire. La solidarietà di 129 reietti che si tengono per mano in mezzo alla tempesta. Che fanno fronte comune. Provando disperatamente a salvarsi dalla schiera delle decine di migliaia di vittime di un Mare Nostrum che assomiglia sempre più a un cimitero di corpi, senza nome e senza Dio.

Ph: Sina Pouyan
Ph: Sina Pouyan

Che cos’è il confine? Come lo rappresenteremmo?
L’attuale conflitto in Medio Oriente mostra quanto possano essere devastanti le diatribe per questioni territoriali, le rivalità fatte di appartenenze e fanatismi.
Durante la seconda guerra mondiale, italiani della stessa lingua, ma di Stati diversi, vivevano le vicende belliche con prospettive contrapposte: chi guardava le bombe su Milano come stelle cadenti; chi subiva sulla propria pelle quelle scie luminose foriere di distruzione, di sangue e di morte.
Dal 2019 Karakorum Teatro si reca nelle terre di confine tra Lombardia e Canton Ticino, per intervistare donne e uomini di tutte le età. Ne raccoglie storie, esperienze, suggestioni, confluite nello spettacolo “Vasi comunicanti” di Stefano Beghi, Chiara Boscaro, Allegra de Mandato e Angela Demattè. Marco Di Stefano come dramaturg e Stefano Beghi alla regia le intersecano in quattro monologhi, anch’essi comunicanti, interpretati con freschezza e brio da Emanuele Arrigazzi, Susanna Miotto, Alice Pavan e lo stesso Beghi.
Gli aneddoti attraversano i borghi di Clivio, Saltrio, Meride e Besazio. Ci restituiscono un’epoca lontana nel tempo, vicina nello spirito per i venti di guerra che arrivano dal Mediterraneo orientale.
Lo stile narrativo richiama Cesare Zavattini e Tonino Guerra. Storie vere, con un tocco di magia e ingenuità, anche nella cornice improvvisata e un po’ abborracciata che fa da collante alle storie. L’immaginazione pare esorcizzare quei tempi sciagurati di ottant’anni fa, la scalmana colonialista, la stupidità guerrafondaia, la vigliaccheria in camicia nera. Sembra di entrare in film come “La vita è bella” di Benigni (il primo tempo) o “Amarcord di Fellini. È il sogno di epopee lontane da sagra paesana, che resiste anche quando si narrano brutture. Perché resta un senso di pace quando il male è ormai un ricordo lontano, e chi è stato a contatto con la morte è sopravvissuto, magari dando origine a una progenie infinita come la Via Lattea.

Storie bizzarre, ma dai retroscena a volte tragici, sono anche quelle di “Non vedo l’ora di vederti alzare da quel divano” di Apnea Cerebrale. Un gruppo di teatro civile composto da pazienti psichiatrici, operatori e volontari. Un racconto di ipocondrie e manie, attese e inerzie, in cui ci riconosciamo.
Questo teatro bislacco creato da Giacomo Puzzo alterna balletti eccentrici a prosopopee da piedistallo. Porta in teatro, facendole dilagare tra palco e platea, 32 figure di nero vestite. Esse brancolano, saltano, danzano, cantano. Seggono e giostrano in mezzo a noi. Si ribellano. Mettono in scena la nostra permanente follia quotidiana. Rappresentano la nostra condizione mutevole e la nostra società liquida, disincantata, a volte inebetita e inerte. Incarnano il tradimento e la gelosia. Ci invitano a sollevarci dal divano, per affrontare a muso duro gli schiaffi e le carezze della vita.
La follia è l’alternativa all’obbedienza per chi non si arrende alla realtà. Qui la rinascita avviene a tempo di musica, grazie al contributo del gruppo DesMunda. Che a sua volta coagula nell’arte il legame tra bellezza e sregolatezza.

“Luoghi (non) Comuni” è kermesse creativa, ma anche occasione di confronto per le residenze di Etre, per riflettere sul nostro tempo, tra legami con l’arte e mutamenti politici e sociali. In attesa di Apnea Cerebrale, focalizziamo lo sguardo sul convegno “Teatro e alterità. Incontrare la disabilità”, con Paola Manfredi (Teatro Periferico), Fabrizio Fiaschini, (professore di Discipline dello Spettacolo all’Università degli Studi di Pavia), Giulia Innocenti Malini (docente di Teatro sociale all’Università di Pavia e alla Cattolica di Milano), Maurizio Lupinelli (Nerval teatro) e Antonio Viganò (Teatro La Ribalta).
Nella relazione fra teatro e disabilità, quest’ultima è ferita che cura, che rinnova i linguaggi artistici trasfondendo i propri impulsi e bisogni. La simbiosi fra teatro e disabilità va oltre ogni visione paternalistica. Il limite entra nell’esperienza drammaturgica. Il binomio teatro/disabilità costruisce la comunità creando valore sociale, alimentando la cultura dell’inclusività.
Restano tuttavia diversi nodi insoluti: quante sono le sale teatrali che garantiscono piena accessibilità non solo agli spettatori, ma anche agli artisti sul palco e ai tecnici? A fronte di 4 milioni e mezzo di percettori di pensione di disabilità, in Italia è irrisoria (solo l’1%) la partecipazione di attori diversamente abili nei laboratori.
Resta aperta anche la questione sulla professionalità di chi conduce i laboratori. Infine, se esiste un valore artistico assoluto in esperienze come Teatro La Ribalta a Bolzano e Nerval Teatro a Rosignano Marittimo (gli spettacoli “Un peep show per Cenerentola” di Antonio Viganò e “Doppelganger” di Lupinelli con Abbondanza/Bertoni sono tra i migliori dell’ultimo triennio) rimane uno scarto ancora significativo tra le chance offerte dalle grandi città e quelle dei piccoli centri.

“L’impresa creativa e culturale serve?” Riflessioni sullo stato di salute del nostro teatro innervano il convegno politico moderato da Oliviero Ponte di Pino (ateatro) con Pietro Bailo (Lo Stato dei Luoghi), Nicolas Ceruti (presidente di Associazione Etre), Patrizia Cuoco (ateatro), Fabrizio Panozzo (Università Ca’ Foscari), Giulio Stumpo (Liv.In.G) e infine Napoleone Zavatto (C.Re.S.Co).
Se Stumpo stigmatizza un quadro legislativo ancora avvilente, senza agevolazioni fiscali, con la difficoltà di accedere al credito, con la limitazione dei finanziamenti, con leggi in ghiacciaia da anni per l’assenza di decreti attuativi, per Ceruti basterebbe ripristinare il 2 per mille per aiutare le imprese culturali. Lo stesso Ceruti evidenzia l’importanza di un settore delle arti dal vivo più compatto, per aumentare il potere negoziale in fase di contrattazione, nel solco dell’occupazione del Piccolo in epoca Covid.
D’altra parte Panozzo, radiografando lo status quo del teatro italiano, sottolinea che le imprese che funzionano in Italia sono quelle che lavorano in orizzontale, nell’ottica di agganciare cittadinanza e territorio. Queste imprese vanno oltre lo strumento legislativo. Intercettano finanziamenti che arrivano da Regioni, Comuni, Commissione europea, progetti con la partecipazione di soggetti privati e Fondazioni. Né vanno trascurate le politiche finalizzate all’educazione, quelle scolastiche, quelle orientate alla Salute, alla salvaguardia della natura, alle Pari Opportunità o alla lotta contro le dipendenze. Non ultimi, Panozzo ricorda i progetti patrocinati dal Ministero dell’Agricoltura (basti leggere in TV i titoli di coda di “Don Matteo”) e quelli sponsorizzati dal Ministero del Turismo.
Patrizia Cuoco postula misure poco impattanti per il bilancio pubblico, eppure con una ricaduta significativa sulle tasche di pubblico e operatori. Per esempio, si potrebbe detrarre il costo dei biglietti d’ingresso a teatro con la dichiarazione dei redditi, ridurre l’Iva, detassare il Fus.
Nel solco degli antichi Greci, Ponte di Pino ribadisce il ruolo attivo della cittadinanza. La parola “impresa” non deve prevalere sulla parola “cultura”. Il direttore di ateatro elenca i diritti dei lavoratori: dalla puntualità nei pagamenti al compenso dovuto per gli straordinari; dalla possibilità di accedere a un contratto da freelance alle garanzie che tutelano la genitorialità. Ma allo stesso tempo lancia una provocazione: le imprese che garantissero questi diritti riuscirebbero a essere anche sostenibili?
I fatti dicono che, a livello planetario, la cultura produce il 3,2% del Pil e occupa il 6,2% della forza lavoro. Zavatto evidenzia l’impatto sociale, economico e tecnologico delle imprese culturali in Europa, se è vero che per ogni euro investito in questo settore se ne producono 1,8.
Intanto, mentre Bailo illustra lo stato dei luoghi culturali in Italia (55 soggetti al Nord, 25 al centro e 21 al Sud) una domanda sorge spontanea: nel 2023 è ancora tollerabile che la patria di Dante, Donatello, Leonardo, Manzoni e Pasolini resti – nella percezione comune – il Paese in cui “con la cultura non si mangia”?

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