Da lasciare impunito, nonostante l’evidenza dei fatti, perché non c’è meccanismo narrativo più efficace del trasgredire apertamente il labile e faticoso tessuto di regole sul quale dovrebbe reggersi moralmente una società.
Ci si rode mentalmente nel reclamare giustizia, ci si sfianca e al contempo si rimane ad abbaiare o ad indignarsi difronte al presunto “male”, allenati come si è, animali democratici, ad aggredire i neri-diversi.
Kornél Mundruczó, regista cinematografico e teatrale ungherese (suoi sono “Delta”, del 2008 e “Tender son” del 2010, entrambi presentati al Festival di Cannes), ha scelto il suggestivo e controverso romanzo “Vergogna” (“Disgrace”) del Nobel sudafricano J. M. Coetzee come materiale fertile intorno a cui rielaborare in chiave personale la sua riflessione sulla natura egoistica dell’uomo, sulle sue clausole d’ordine etico-sociale, sull’hobbesiano istinto di prevaricazione e sopraffazione che sembra contraddistinguerne ogni sorta di illusoria evoluzione.
Lucy vive in aperta campagna, cercando di portare avanti la sua fattoria, mentre il padre David è professore alla Cape Town University ma, additato dai colleghi come colpevole di violenza sessuale nel contesto di una fugace pseudo-relazione con una studentessa, si rifugia per un po’ di tempo dalla figlia. Lì, però, invece della pace troverà un altro inferno, fatto di esasperazione, violenza, colore della pelle.
Dieci corpi attoriali dall’eloquio magiaro si muovono in una scenografia d’impianto cinematografico, un interno da sit-com (d’una qualsiasi periferia abbandonata del mondo) che al mimetismo del presunto reale accosta a tratti un’inquietudine e una morbosità lynchana, evocando lo spettro dell’apartheid, trascolorando poi repentinamente in sortite ironiche dentro e fuori la traccia narrativa più epica e romanzesca. Un’operazione di commistione post-moderna in cui si trova di tutto: da inserti animati al processo kafkiano, dal coro a cappella al canto, dalla ‘mise en abime’ alla prova attoriale più prosastica, dalla chiamata in causa diretta dello spettatore fino alla ruvidezza documentaristica delle riprese dal vivo con camera in mano.
Il primo cadavere è quel realismo mimetico che paradossalmente sembra esser cercato nello shock iniziale.
Quel che ne emerge è un mondo consumato. Di consumismo sfinito. Degradato. Malfunzionante. Devitalizzato. D’una rabbia cieca. Senza protezioni. Dai simboli destituiti (non a caso forse il crocefisso è incollato al frigorifero, gadget tra i gadget e niente più).
E nella gabbia fisica e mentale nella quale si finisce non si può che disarmare sé stessi, riconsiderarsi, abbandonando il proprio modus vivendi (o moriendi). Destabilizzare il proprio codice per inadeguatezza operativa, sconvolgerne il valore. Scardinare le fondamenta. Esemplarmente, dichiarare la disfatta dell’accanirsi sul linguaggio-comunicazione, l’abbandono della speranza salvifica della parola.
E allora recitare come cani, far prevalere il lato selvaggio come unico salvagente esistenziale. Raggiungere bestialmente quella sovraeccitazione sensoriale che, agita da “umani”, sfocerebbe nell’enfatico e fastidioso “esagerare”.
L’uso nudo e crudo delle luci, fredde e bianche, controcanto e connotazione dei corpi nudi, della desertificazione dei sentimenti contribuisce a fare di “Disgrace” un requiem per l’essere razionale, un cimitero della dignità che provoca un certo compiacimento.
In questa “disgrazia” della tragedia manca il pudore. Ma in effetti il romanzo stesso di Coetzee divide quanti hanno provato a leggerlo: chi l’ha amato (anche) per la sua crudezza e la sua “indicibilità”, e chi l’ha rifuggito, abbandonando le sue pagine perché troppo duro e violento.
E anche qui, in scena, il “sangue” è ben visibile (dallo sgozzamento dei cani allo stupro). La catarsi è disperata. La negazione dell’osceno è risolta nella pornografica visibilità del tutto. L’eccedenza sensoriale naviga in superficie, secondo il paradosso del “più vedi meno immagini”.
Nella prevalenza del più forte, i legami nascono solo dalla paura, dal timore preventivo dell’altro. La vita tout court è il violentatore-carnefice nei confronti del quale arrendersi ad un’agghiacciante quanto pacificante sindrome di Stoccolma dell’esistenza.
Mancano quelle “imperfezioni” che avrebbero potuto portare lo spettacolo oltre la soglia della ben congegnata e professionale macchina di scena, al servizio (provocatoriamente come un cane mansueto e divertito, non certo ribelle) del testo, della narrazione, delle dinamiche spettacolari, del virtuosismo e dell’high budget produttivo.
Manca quello scarto che scompiglia gli animi, che scatena il pensiero, se non nei momenti di imprevista interazione: le coccole al cane, la sua improbabile asta. Le pause che nascono da quelli, tra il pubblico, che se ne vanno.
DISGRACE
regia: Kornél Mundruczó
musiche: Janos Szemenyei
drammaturgia: Viktorya Petranyi
attori: Annamaria Lang/Orsi Tóth, Lili Monori, Kata Weber, Gergely Banki, János Derzsi, Laszlo Katona, Roland Raba,Janos Szemenyi, B.Miklos Szekely, Sandor Zsoter
disegno scene e costumi: Marton Agh
produced by: Proton Cinema+Theatre
coproduzione: Wiener Festwochen, Festival d’Avignon, KunstenfestivalDesArts,Trafó House of Contemporary Arts, Malta Festival, Hebbel am Ufer, Romaeuropa Festival
con il Patrocinio dell’Ambasciata del Sudafrica in Italia
durata: 2h 05′
applausi del pubblico: 3′ 40”
Visto a Roma, Teatro Vascello, il 22 novembre 2012