
LONDRA – Ospitato per tre giorni all’ICA (Institute of Contemporary Arts) di Londra, “Against Gravity Live Weekend” si è interrogato su quanto l’artista si senta preda della necessità di rappresentare il contemporaneo. Estremamente ambizioso e diversificato, il weekend ha proposto performance, proiezioni, musica e installazioni, portando le varie pratiche a nodi intellettuali e animando un dibattito sul futuro dell’arte in contesti culturali complessi.
“‘Against Gravity’ non è stato un weekend tematico, ma la presentazione di una serie di mezzi con scopi differenti – diversi artisti le cui pratiche coincidono e interagiscono in vari modi’”, spiega la giovane curatrice Catherine Borra. Alla base di queste intersezioni c’era la necessità di svelare i codici che danno forma all’arte contemporanea in una pratica così esoterica. “Di certo sono già molte le conversazioni incrociate con le quali gli artisti stessi tentano di chiarire la propria posizione all’interno di questo mondo dell’arte esoterica. Il grande problema era relativo ai legami imposti da una sorta di “gravità storica”, una sorta di peso che l’arte avverte nei confronti delle forme che l’hanno preceduta”.
Ammesso che ne esista uno a Londra, questo può essere per certi versi definito un movimento underground?
Spero di sì, non perché mi piaccia l’idea, ma perché apprezzo le idee che propone, oneste e piene d’energia. Credo che quell’energia creativa ci sia ancora, anche se a volte il loro lato puramente estetico prevale sulle idee stesse. Non mi interessa sembrare rivoluzionaria, credo che sia molto più radicale essere sinceri.
Il programma ha presentato intersezioni di carattere concettuale e fisico, gli spettatori che venivano a vedere una proiezione hanno trovato ad accoglierli un percorso di performance site-specific e quelli che venivano per un concerto hanno dovuto farsi strada tra le installazioni.
Ho invitato personalità tra loro molto differenti , selezionato artisti, performer, musicisti, curatori e molti di loro hanno un collegamento interattivo. Per esempio nella sezione “Saturday in Cinema” abbiamo proiettato un video di “Journeys End in Lovers Meeting”, la cui musica è composta da uno dei musicisti dell’”HTRK”. Un approccio alla programmazione che ha cercato di integrare collaborazioni, assicurandosi un pubblico eterogeneo. Questa interazione tra artisti, pubblico e temi ha creato un pubblico ricettivo e sensibile. Grazie a un’offerta così eterogenea non solo si diversifica l’esperienza, ma la si percepisce abbinata a diversi modelli. È importante non segregare il pubblico: qui il cinema è una cosa, la musica un’altra, il teatro un’altra ancora. È questo che manca a Londra, un vero e proprio mescolarsi del pubblico.
Eppure è stato lo spazio a dettare legge sul contesto di queste interazioni. Il teatro è stato ospite dello spazio creato per l’installazione di Conrad Ventur “Will to Power”, mentre la magnifica performance di Matthew Stone che mischia suono, ambienti digitali e musica dal vivo, “Anatomy of Immaterial Worlds”, è andato a occupare lo spazio allargandosi fino al foyer che stava ospitando un dj set di Pandora’s Jukebox. Ciò ha fatto sì che il fuoco d’attenzione del weekend non fosse il puro interesse nella materia trattata, quanto piuttosto la forma e la percezione e un contesto che non dipendesse dal genere ma dai modelli di comunicazione.
Avevamo a disposizione soltanto gli spazi secondari della galleria, quelli non espositivi. Così metterli insieme è diventata la linea guida. Si trattava di luoghi di passaggio ed è stato interessante lavorarci, perché il pubblico poteva incontrarsi mentre fluiva da una sala all’altra. Nessun segnale presente, così uno spettatore era “obbligato” a chiedere informazioni all’altro.
In che modo Italo Calvino è stato preso in considerazione nell’aspetto organizzativo?
Ho letto un testo di Calvino tempo fa e mi è rimasto impresso. La sua visione era di conquistare uno speciale, magico tocco con il quale poter catturare i fatti del mondo e tradurli in una storia dai toni davvero leggeri, una realtà diminuita. Il mezzo per dedurre e tradurre questa realtà in un oggetto artistico, in questo caso un romanzo, non lo si può affrontare in maniera diretta, bisogna manipolarlo. Nel suo caso, il piano era agire sullo stile: andava alla ricerca di stratagemmi per dedurre il significato della realtà che viveva senza trasferirlo, perché non sarebbe mai stato un significato effettivo. La sua azione creativa è lo stratagemma – ogni testo ha un punto di vista appositamente costruito che serve da specchio rifrattore. Per la nostra programmazione il concetto di “gravità” era esattamente questo. Un mezzo per accedere.
“Against Gravity” ha cercato di evadere i pregiudizi negativi nei confronti del comportamento delle istituzioni.
Io non sono particolarmente interessata alla differenza tra progetti non profit, progetti istituzionali o finanziati privatamente. Forse lo sono stata, ma ora credo che se uno spettacolo è molto buono, non vedo perché dovrei boicottarlo. Alcuni dei progetti che voglio curare sono frutto di collaborazioni organizzate tra fondazioni e organizzazioni non profit. Su un piano economico l’unico modo per continuare per la pratica artistica e per il sistema culturale è di mettere in piedi collaborazioni tra gruppi, legami che non siano necessariamente relegate nell’arte, ma nel design, nella musica, nel teatro. È l’unico modo per creare dei programmi sostenibili. Le istituzioni devono scendere a compromessi, ché condividere è l’unico modo per procedere e può essere interessante quando hai diverse discipline e programmi e ambienti culturali che si fondono e si ricostruiscono reciprocamente.
Quindi il curatore è più una figura che fa rete o un attivista culturale?
Io credo che i curatori siano strane figure. Potrebbero essere semplicemente dei moderatori, ma se sono io a dare il via a un dialogo, lo faccio perché voglio prendervi parte o essere coinvolta. Ma io non faccio arte, sono parte di una forma di attività culturale.
Come vede questo lavoro in un contesto socio-politico più ampio?
Mi basterebbe vivere in un mondo in cui la cultura fosse solo cultura.
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L’intervista è stata pubblicata in inglese su www.dianadamian.com e www.fireflyjournal.co.uk. Traduzione a cura di Sergio Lo Gatto