Alessandro Businaro e Teatro in Quota: crisi, confini e passaggi di testimone

Alessandro Businaro
Alessandro Businaro

Per il terzo anno Businaro dirige TiQ, festival sulle montagne in provincia dell’Aquila, al via lunedì 7 agosto

Incontriamo Alessandro Businaro, ventinovenne talentuoso regista della nuova generazione, recentemente in scena con il suo ultimo lavoro “35040” a Pergine.
Ci racconta di sé e del festival TiQ Teatro in quota, di cui è direttore artistico per il terzo anno, e che si svolgerà a Rocca di Mezzo, sulle montagne in provincia de L’Aquila, dal 7 al 13 agosto prossimi.

Per chi non ti conosce, in breve qual è stato il tuo percorso?
Ho studiato recitazione a Bologna alla Galante Garrone e poi all’Accademia Silvio d’Amico. Dal 2018 mi sono avvicinato al contesto della Biennale College (tra i finalisti 2018-2019). Ho seguito, per un periodo da assistente, il lavoro di Antonio Latella e poi, prima della pandemia, mi è stato proposto di presentare proprio nel cartellone della Biennale “George II”, un progetto che partiva dalla drammaturgia di Stefano Fortin, autore e dramaturg con cui lavoro da diversi anni. “George II” era una drammaturgia che era arrivata qualche mese prima in finale al Premio Riccione – Vittorio Tondelli e che mi interessava molto perché parlava di ereditarietà e dell’essere figli in determinate comunità privilegiate. Si parlava di famiglia ma in un senso più ampio, come tribù del mondo occidentale. Grazie a questo progetto sono entrato in contatto con lo Stabile del Veneto e in particolare con l’ex direttore Massimo Ongaro, che nel 2021 ha deciso di produrre “Abitare lo specchio”, una trilogia scritta da Tommaso Fermariello e andata in scena al Teatro Verdi di Padova.

Da lì come sei arrivato a diventare direttore artistico di Teatro in Quota?
Grazie al periodo di chiusura forzata dei teatri abbiamo avuto modo di concepire il lavoro allo Stabile del Veneto nel 2021 in maniera diversa rispetto alla più classica struttura produttiva italiana; sostanzialmente lavorammo per 6 mesi con un gruppo di 12 attori, cercando di simulare (ovviamente senza riuscirci del tutto) la struttura del teatro tedesco/continentale. Due progetti, due autori (Tatjana Motta e Tommaso Fermariello), un solo dramaturg (Stefano Fortin) che tirava le fila del tutto, 12 attori che lavoravano continuativamente per 6 mesi e due registi (in questo caso io e Francesca Macrì per la Compagnia Biancofango). Il progetto, che si è chiamato “Orizzonte Postumo”, posso dire che porta direttamente a “Teatro in Quota” dal momento che, grazie a questa esperienza, ho incontrato Dario Del Fante. Dario all’epoca era uno studioso di Linguistica Computazionale a Padova e ha collaborato con noi nella prima parte di Orizzonte Postumo. Durante la collaborazione stava cercando un direttore artistico per Teatro in Quota, festival di cui era fondatore e direttore esecutivo, e da lì è iniziato il percorso insieme. Rocca di Mezzo (AQ) è una cittadina di poco più di mille abitanti, che durante l’estate però si riempie, in quanto luogo di villeggiatura. Da qualche anno è bello vedere, grazie ai laboratori e alle residenze del festival, decine e decine di giovani provenienti da tutta Italia che si confondono con gli abitanti e si inseriscono per un periodo nella comunità. Ho iniziato a dirigere il festival nel 2021 e da quel momento, anche in qualità di regista, ho iniziato a interessarmi sempre più a un tipo di linguaggio che andasse oltre lo spazio del teatro. Pertanto posso dire che TiQ sia diventato un posto dove si predilige una laboratorialità e un incontro con il paesaggio urbano e la cittadinanza.

Quali laboratori proponete quest’anno?
Teatro In Quota prevede un programma di sette giorni con programmazioni di vario tipo. Per quanto riguarda i laboratori, cerchiamo sempre di proporre due laboratori professionali (lo scorso anno ci fu il mio e quello di Fabio Condemi e quest’anno accoglieremo invece Martina Badiluzzi), e uno per la cittadinanza che l’anno scorso fu affidato a Silvia Gribaudi e quest’anno sarà condotto da Gianmaria Borzillo e Giovanfrancesco Giannini, i danzatori di “Save the Last Dance for me” di Alessandro Sciarroni. Mi rendo conto che il movimento, attraverso la danza, lavora in un piano profondo, in maniera inesorabilmente sotterranea, e quindi il pubblico – anche suo malgrado – si trova a partecipare a un rito collettivo attraverso questi percorsi laboratoriali.

Tu condurrai un tuo laboratorio per performer ma non presenti uno spettacolo.
Ho scelto di non portare un mio lavoro come performance quest’anno. Avendo presentato l’anno scorso il primo studio di “35040”, ho pensato che servisse più tempo per tornare e restituire un lavoro nuovo alla cittadinanza e agli spettatori del festival.
Ci sarà il mio laboratorio “Padre Nostri” che dialoga con il progetto “Unsettled”, realizzato dalla regista statunitense residente a Barcellona Simone Tetrault. Attraverso il laboratorio e il progetto di Simone indagheremo il concetto e l’esperienza della precarietà, intesa sia come generazionale (tengo sempre in mente Raffaele Alberto Ventura che presenta il concetto dei millenials iperformati, che devono vedersela col tradimento delle loro stesse aspettative), che come precarietà legata alla sfera migratoria.

Teatro in Quota
Teatro in Quota

Sembra proprio che sia la crisi, in ogni sua accezione semantica e culturale, a dare forma alla tua ricerca e alla programmazione allestita per Rocca di Mezzo.
Sì, la crisi e l’instabilità mi interessano molto, così come il confine tra il guardarsi e il guardare fuori. Mi rendo conto di essere un “privilegiato” rispetto a molte altre persone e molti altri artisti che non possono avere la parola. Il mio privilegio, in quanto uomo occidentale, borghese, europeo, bianco, inevitabilmente offusca determinate mie visioni e credo che questo annebbiamento sia presente e dilagante nella maggior parte delle direzioni artistiche in Italia e in Europa. Dando un occhio alle programmazioni europee mi rendo conto di quanto il mondo culturale/teatrale sia miope rispetto al proprio privilegio e di quanto, nei pochi casi in cui vengono sollevati dei dubbi, si mettano in moto meccanismi goffi di bilanciare questa miopia. Non credo possa esistere un teatro di domani senza la messa in crisi strutturale del tema del privilegio. Una messa in crisi che porterebbe a trasformazione estetiche profonde.

Quali altri spettacoli saranno presentati a TiQ?
Ci sarà Antonio Rezza con “Pitecus” e “Simpatia N. 03”, un lavoro di Filippo Lilli e Valentina Sansone che l’anno scorso ha vinto il bando di residenza di TiQ. È un lavoro di suono e di coreografia site-specific realizzato a partire dal campanile di Rocca di Mezzo. Ci saranno anche “Trans(h)Umanza” di Lidi Precari, “Caronte” di Camilla Montesi e “Un onesto e parziale discorso sopra i massimi sistemi” di Pietro Angelini e Alessandro Sciarroni con “Save the Last Dance for me”.

Ritornando alla crisi, il tuo ultimo lavoro “35040” mette anch’esso in crisi la struttura del sistema-spettacolo, scompaginando struttura, ruoli, sguardi e azioni.
“35040” è un progetto partecipativo, dove il pubblico si reca in un luogo qualsiasi (un castello, una fortezza, un campo da calcio…) e si trova ad attraversare un’esperienza che varia ogni volta, a seconda delle scelte che ognuno di loro compie e a seconda del grado di partecipazione alla performance. Ogni persona ascolta una diversa testimonianza riguardo a una casa che si trova nella zona del codice di avviamento postale 35040 [Villa Estense PD, paese originario del regista e della sua famiglia, n.d.r.] e in base a questa registrazione viene invitata a scrivere una propria collezione di ricordi. In seguito a questo viaggio individuale si entra in un momento collettivo in cui il performer, Tano Mongelli, costruisce insieme al pubblico una casa comune data dalle memorie di tutti coloro che vorranno partecipare. Ogni volta è una casa diversa: può esserci una casa con vista sull’Etna che, una volta aperta una porta, ti conduce in una stanza di Genova, ad esempio. Sono i tempi diversi, gli spazi distanti, le memorie di persone disparate (nonni, giovani e bambini) che costruiscono le geografie e le identità d’insieme, fino a culminare nella composizione, rituale, di una canzone collettiva, una musica che si canta tutti insieme improvvisata in relazione agli elementi che vengono introdotti e che ci accompagna oltre la performance.

Per affrontare un lavoro del genere tu, come regista, in che posizione ti poni?
Attraverso i laboratori ho sentito sempre di più la necessità di lasciare la parola agli altri, di passare il testimone. “35040” è quanto di più condiviso possa esserci, una performance che parla e canta un po’ di tutti: parla di Tano, della drammaturgia proposta, della fantasia e del vissuto degli astanti; ecco che in questo processo, a un certo punto, anch’io divento spettatore. Non c’è una gerarchia rispetto all’autorialità. Lasciare lo spettacolo nelle mani degli altri è un rischio, pensandola in un’ottica di successo, ma è una zona di rischio meravigliosa.

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