Extinction. La colossale opera di Julien Gosselin mette alla prova il pubblico

Extinction (ph: Christophe Raynaud de Lage)
Extinction (ph: Christophe Raynaud de Lage)

Presentato al Festival d’Avignon 2023, lo spettacolo punta il dito contro il vuoto della cultura europea del Novecento

Questa riflessione sull’opera “Extinction”, regia di Julien Gosselin presentata al Festival di Avignone, potrebbe avere tre inizi. Li proponiamo tutti e tre qui di seguito e che ognuno scelga quello che preferisce.

Primo incipit possibile. Much ado [for the] nothing / Molto rumore [per il] nulla: siamo costretti a storpiare un celebre titolo di Shakespeare per rendere conto di un gioco drammaturgico, a somma zero, che vuole manifestare il nulla della Storia, la nostra o quella dei nostri avi. Un gioco teatrale condotto con grande forza tecnica e con poco senso analitico.

Secondo incipit possibile. Un esponente del teatro di regia come Roger Planchon – agli inizi imitato anche da Patrice Chéreau o da Jean-Pierre Vincent – aveva tra i suoi stilemi più tipici quello della folla. Essa “riempiva” il palco, dal fondo sommergeva gli attori che diventavano parte di un tutto, oppure invadevano il pubblico coprendo la situazione intima dei personaggi e conferendo loro una dimensione storica che li relativizzava, mettendo distanza critica alla fabula.
Il jeune turc del teatro francese, Julien Gosselin, ci rende noi stessi folla, e in questo modo ridà al teatro la sua dimensione di fiera, ribadisce la funzione ancestrale del teatro rimasticandone i codici; abolisce la Storia affogandola nel Presente.

Terzo incipit possibile. “Mi piacciono gli spettacoli lunghi” afferma Gosselin. Ed “Extinction” conferma in modo parossistico questa preferenza, mettendo in risalto la ferma intenzione del regista di non proporre una vera scelta drammaturgica attraverso la sua regia: sono le telecamere e la pazienza degli spettatori – messa alla prova di uno spettacolo di più di cinque ore – che sceglieranno per lui.

Barthes sosteneva che il critico deve cercare “di coprire l’opera il più completamente possibile con il proprio linguaggio” e, benché nel saggio “Qu’est-ce que la critique?” parlasse sostanzialmente di letteratura, la forza con la quale i registi contemporanei si affermano e sono percepiti come autori giustifica le riprese di queste riflessioni metalinguistiche. Di conseguenza, davanti ad un’opera che non sceglie né decostruisce, ma impone il gioco “senza tempo” del teatro come “relazione intersoggettiva al presente”, e rimastica il gioco tutto contemporaneo del teatro sdoppiato dalle telecamere, è giusto fornire più inizi, proprio per parlare di un’opera fondata su un principio di profonda indeterminatezza.

“Extinction” si divide in tre parti: le prime due mettono in gioco degli estratti del romanzo di Thomas Bernhard “Estinzione”, mentre la seconda parte, quella centrale, dà vita ad “un film svolto in diretta, o uno spettacolo filmato in diretta” – Gosselin dixit – che annienta un “centone” drammatico composto dalle opere di Arthur Schnitzler (“Il Girotondo” e “Doppio sogno”), più qualche inserto di Hugo von Hofmannsthal.

La recitazione carnale e potentissima dei membri della Volksbühne am Rosa-Luxemburg-Platz e di alcune attrici e alcuni attori che lavorano da anni con Gosselin – come Carine Goron o Joseph Drouet – sostiene un’opera altrimenti intollerabile, malgrado la sapienza tecnica di cui danno prova il regista e la sua squadra di operatori e tecnici.

Se avete scelto il primo incipit, allora avrete scelto di leggere due parole sulle modalità con le quali l’autobiografia psichica, intellettuale e politica del nichilista attivo Bernhard è declinata al femminile e confusamente inserita in tre tempi storici. L’opera inizia nel luglio 1983, nello spazio di una Roma trasformata in discoteca parigina dai nostri corpi (di noi spettatori); poi ci troviamo nel presente dello spettacolo filmato, quella che per Gosselin è l’Apocalisse viennese, intorno al 1913, al quale assistiamo insieme con l’attrice che incarna l’autobiografia di Bernhard. Una conferenza, che potrebbe aver luogo sempre e comunque, “à Montpellier, à Vienne encore, à Avignon, à Berlin, à Paris” (ovvero ovunque questa produzione è stata o sarà in tournée) chiude il ciclo.
L’autore austriaco mette nel romanzo “Estinzione” tutta la forza di cui è capace per liquidare sé stesso con la propria storia familiare: una confessione che è un atto di accusa. Il primo capitolo dello spettacolo ci consente, grazie alle telecamere, di inseguire i sogni e la voglia di fuggire dalla realtà di una giovane donna (Rosa Lembeck) di origine austriaca, che si gode una serata in discoteca. Ma beve troppo, la sua compagna cerca di bloccarla, di convincerla a rientrare a casa e a leggere il telegramma che le è appena arrivato.

Tutto questo avviene dopo che, per circa quaranta minuti, il palco della Cour del liceo Saint Joseph di Avignone è letteralmente trasformato in discoteca. Il centro del palco è occupato dalla console e dai tre dj che producono un’ottima musica elettronica mentre, sulla sinistra, un barman distribuisce birre a chi sceglie di bere e ballare sotto cassa.
La serata, però, ha avuto inizio una mezz’ora prima dell’inizio dello spettacolo, quando negli spazi di questo Liceo, simile ai licei occupati della nostra adolescenza, abbiamo iniziato a bere aspettando che il palco aprisse le porte. Poi le telecamere fenderanno la folla per permetterci di inseguire la coppia che discute e sogna, e che resterà con noi per tutto lo spettacolo.
La musica è vera, la partecipazione del pubblico anche, così, dopo qualche ora passata a spiare l’autoestinzione della società civile primo novecentesca, siamo intimi di questa figura che ricorda il regista Ingeborg Bachmann anche se recita le parole di Bernhard.

Suo fratello e i suoi genitori sono morti e lei prova il dolore di non provare vero rammarico per la morte di due vecchi nazisti, bigotti ed opportunisti, chiusi in una cultura borghese vuota e di facciata, lontanissima dalla cultura viva e caotica che scopre a Roma. Per nulla al mondo vorrebbe tornare nel suo villaggio in Austria, per nulla al mondo vorrebbe affrontare la stolida riprovazione delle sorelle, che la accusano di aver abbandonato il nido e liquidato il retaggio familiare.
Dovrà confrontarsi con tutto questo, ma non prima di aver enunciato il credo di Bernhard: abbiamo bisogno di una rivoluzione totale che, prima di tutto, faccia piazza pulita del nostro passato e dell’ipocrita nostalgia verso un mondo infetto che non fa altro che propagarsi e distruggere.

Al Café des idées, nella Cour Saint-Louis di Avignone, Gosselin così interpreta Bernhard: “Per procedere all’estinzione del proprio paese di origine, del modo con cui i propri genitori gli hanno insegnato a guardare l’arte e la cultura, del modo col quale le persone sono sprofondate politicamente è necessario procedere ad una estinzione di sé stessi”.

Nell’intervista distribuita come foglio di sala al pubblico, il regista sostiene che ormai le persone rifiutano il neoliberismo in nome dell’individualismo. Gosselin ama i paradossi, dunque sembra rigettare le contraddizioni, le estingue in un gioco tutto al presente, una festa di carnevale eseguita con gli strumenti del contemporaneo.

Avendo scelto il secondo incipit, soffermatevi allora sulla strategia con la quale diventiamo parte del gioco teatrale. L’effetto è sicuro: l’euforia e la vitalità scorrono senza problemi – ma poi saremo richiamati all’ordine, come la protagonista di questo collage. Tuttavia renderci “folla”, farci diventare parte della scenografia e della coreografia, non significa sfidare i limiti del teatro, bensì ribadirne le presupposte origini antropologiche. Perché allora fissare una data ed un luogo, “Roma, luglio 1983”?

Siamo immersi nell’opera, siamo lo spettacolo, le telecamere che ci riprendono amplificano questo dato di fatto e solo dopo ci proporranno il primo piano della protagonista. Perché non fare la scelta, fin da subito, di liquidare i tempi della fabula se comunque non si è in grado di pensare davvero, con forza e distanza straniante, la Storia?

Sempre al Café des idées, Gosselin ha affermato di cercare di fare spettacoli sempre più difficili, sempre alla ricerca di un rischio che sfidi i suoi limiti, unico modo, per lui, di affrontare il panico del fallimento. Certo, il rischio è quello di dover gestire qualche scalmanato tra il pubblico, ma quale rischio esegetico corre l’autore di un collage che mescola i tempi dell’avvento e del post nazismo? Per il regista, la sua protagonista critica e distrugge il “suo” spettacolo; di fatto, però, l’”opera aperta” dell’inizio, con le telecamere e il montaggio che sembrano moltiplicare i punti di vista, diventa un’opera chiusa su sé stessa.

Il monologo che termina questo lunghissimo atto teatrale – unico, perché unito dalla protagonista che attraversa i tre capitoli – non propone una pluralità di punti di vista, ne impone uno solo: camera fissa, sguardo sull’attrice e sullo schermo, noi stessi chiusi su un testo denso che scorre come un fiume, travolge, lascia segni perché di rara forza ma non lascia scampo. Il teatro come festa si rivela una gabbia perché le telecamere e gli schermi, anche le proiezioni dei sottotitoli sul volto dell’attrice, non ingrandiscono la realtà né mettono a fuoco le possibilità dell’opera di Bernhard, piuttosto le vivisezionano.

Le telecamere e il montaggio in diretta svolgono, attraverso un’eccezionale maestria tecnica, un ruolo di amplificatori della presenza teatrale.

Se avete scelto il terzo incipit, senza saperlo volete sapere come Gosselin ha voluto materializzare sul palco l’inconscio di un’epoca intera, quella della società viennese e mitteleuropea dell’inizio del Novecento. In poche parole, il regista ribalta la relazione tra scenografia e pubblico, giocando con un décor à l’envers: noi vediamo il retroscena degli ambienti fittizi ricreati unicamente per gli attori e gli operatori, come se spiassimo un set ma potessimo seguire lo svolgimento dello spettacolo sui monitor. Questo finto cinema in diretta è vero teatro perché la camera e il montaggio non fanno che ribadire il gioco di corpi ed anime inquiete che vive sotto i nostri occhi.

Vivisezionare il reale con l’uso del video significa dare una chance rara ai sentimenti generati dagli attori di esplodere nella loro grandezza e fragilità proprio perché ridotti in brandelli. Questo porta gli spettatori ad essere non solo voyeurs ma piuttosto chirurghi di un’Apocalisse che si trascina tra sesso, alcol e frivolezze del bel mondo, di cui annusiamo il lezzo intenso e delicatissimo. Un medley di battute e di sguardi intensi che richiamano il mondo viennese e che culminerà nella grottesca danza della morte in costume bavarese della fine del capitolo (i protagonisti si trucideranno vicendevolmente in costume tradizionale, pantaloni corti, cappello con piume e bretelle a sorreggere il tutto). L’immagine del carnage è anticipata dal video che non svela molto, in realtà, solo la visione nera che Gosselin getta sui desideri repressi di un’epoca intera.

Questo capitolo dell’opera è anch’esso diviso in tre parti, un girotondo attorno ad un vuoto di desideri, ipocrisie e premonizioni di fine, che mette in risalto anche il sadismo insito nel mondo tramite una parabola universale di sapore coloniale. Nel corso di una serata a base di esplosioni di desideri repressi, il marito della padrona di casa (il medico di “Doppio sogno”) racconta che, quando era militare in Cina, aveva incontrato un prigioniero del tutto particolare. I massacri e le stragi per reprimere le insurrezioni erano all’ordine del giorno e tutti i prigionieri pregavano, imploravano o piangevano la notte prima dell’esecuzione. Tutti tranne uno che, al contrario, continuava tranquillo a leggere il suo romanzo, come se nulla fosse. L’ufficiale, colpito, gli chiese perché continuasse a leggere, lui rispose che nulla era già scritto e che, per il momento, preferiva continuare a leggere un romanzo che forse avrebbe anche potuto finire. Chissà…

Il racconto dell’ufficiale, ora ricco medico, che in Cina aveva poi graziato l’uomo, inserito in questo quadro dello spettacolo può assumere molteplici significati. In primo luogo, l’arbitrarietà priva di senso della vita e della morte degli esseri umani; ma anche la parabola che vuole forse ricordarci come, anche quando siamo immersi nella catastrofe, tanto vale continuare a leggere tranquilli il nostro romanzo.
In realtà, con tutto questo lungo capitolo, Gosselin sembra tentare di snocciolare una forma di predizione del passato che, per noi che interpretiamo oggi queste situazioni, ci parla troppo chiaramente del nostro futuro.
Il problema è che, se la bravura della compagnia non può essere messa in discussione, perché attrici e attori ricostruiscono e disfano un mondo facendoci entrare nel cuore dei personaggi, si fatica a vedere la scelta del regista, che costruisce una drammaturgia ben congegnata del già noto, già visto, già esperito.

Bella ma snervante, “Extinction” è un’opera che consacra Gosselin maestro nel tenere in piedi tecnicamente storie lunghe e complesse, senza tuttavia proporre scelte drammaturgiche incisive. Di fatto, l’idea è quella di mostrare il vuoto della cultura europea, caratteristico sia dell’inizio del Novecento sia del post Seconda Guerra Mondiale. Ma la straordinaria forza formale dello spettacolo non si traduce in una possibilità di riflessione più ricca e complessa sul nostro passato e sul nostro futuro, al punto che non pochi hanno abbandonato lo spettacolo prima della fine, o giurato di non voler più vedere uno spettacolo di Gosselin.
Alla fine, questa danza meccanica sul nulla e questa vivisezione del vuoto dei nostri desideri repressi estingue la pazienza di buona parte del pubblico: da troppo tempo partecipiamo a questo sterile e ben congegnato girotondo.

Extinction
Con: Guillaume Bachelé, Joseph Drouet, Denis Eyriey, Carine Goron, Zarah Kofler, Rosa Lembeck, Victoria Quesnel, Marie Rosa Tietjen, Maxence Vandevelde, Max Von Mechow
Testo: Thomas Bernhard, Arthur Schnitzler, Hugo von Hofmannsthal
Adattamento e regia: Julien Gosselin
Drammaturgia: Eddy d’Aranjo, Johanna Höhmann
Traduzione: Henri Christophe, Philippe Forget, Pierre Galissaires, Gilberte Lambrichs, Anne Pernas Francesca Spinazzi, Panthea
Musica: Guillaume Bachelé, Maxence Vandevelde
Scenografia: Lisetta Buccellato
Luci: Nicolas Joubert
Suono: Julien Feryn
Video: Jérémie Bernaert, Pierre Martin Oriol
Costumi: Caroline Tavernier assistée de Marjolaine Mansot
Quadro video: Jérémie Bernaert, Baudouin Rencurel
Assistenti alla regia: Sarah Cohen, Max Pross
Accessori: Lisetta Buccellato, David Ferré, Antoine Hespel, Yvonne Schulz, Carlotta Schuhmann
Campionatura: Laurent Ripoll
Regia tecnica e di palco: Simon Haratyk, Guillaume Lepert
Regia luci: Zélie Champeau, Manon Meyer
Regia suono: Manon Poirier
Regia video: David Dubost, Philippe Suss
Sottotitoli: Anne Pernas
Script video: Elsa Revcolevschi
Stage tecnico: Marine Banal, Alix Capossela
Amministrazizone, produzione e diffusione: Eugénie Tesson
Organizzazione della tournée e azioni culturali: culturelles Marion Le Strat
Amministrazione: Olivier Poujol
Direzione tecnica: Nicolas Ahssaine
Produzione: Si vous pouviez lécher mon coeur, Volksbühne am Rosa-Luxemburg-Platz
Coproduzione: Printemps des Comédiens (Montpellier), Wiener Festwochen, Le Phénix Scène Nationale Valenciennes pôle européen de création, Festival d’Automne à Paris, Festival d’Avignon, Théâtre Nanterre-Amandiers, Théâtre de la Ville Paris, Maison de la culture d’Amiens, Théâtre de la Ville de Luxembourg, De Singel Anvers
Con il sostegno di: ministère de la Culture e per la 77e édition du Festival d’Avignon: Spedidam
Con l’aiuto del Channel de Calais, Odéon-Théâtre de l’Europe (Paris), École du Théâtre national de Strasbourg
Costruzione della scenografia: Volksbühne, Ateliers Devineau
Con la partecipazione artistica del: Jeune Théâtre National

Visto ad Avignon, Cour del liceo Saint Joseph, il luglio 2023

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