Babilonia Teatri alle prese con O’Rowe affina crudeltà e cinismo

Terminus
Terminus
Terminus (photo: teatrobelli.it)
Prosegue l’ottava edizione di Trend, la rassegna di avanguardia britannica organizzata da Rodolfo di Giammarco a Roma. Dopo l’Accademia degli Artefatti il turno passa a Babilonia Teatri, già vincitore del Premio Scenario 2007 con Made in Italy.

Prendi un testo britannico che più britannico non si può. Terminus è la quintessenza del mal de vivre metropolitano nordico. Dublino ha zanne lunghe e affilate e quando morde ferisce nel profondo, scava piaghe che è impossibile risanare. Occorrerebbero strati e strati di candore per riparare. Ma valli a trovare, tutti quegli strati, in una situazione squallida e disastrosa come quella raccontata (e immaginata) da Mark O’Rowe.
Poi traduci quel testo integralmente (è agile e scaltra la versione italiana di Serenella Martufi).

Magari dai un’occhiata alla versione originale, di cui per documentarsi Babilonia ha avuto occasione di leggere alcune recensioni. Attacca il testo con una prima lettura, poi con una seconda. Renditi conto che è troppo complesso. Allora prendi forbici affilate e intelligenti e taglia quello che puoi, spoglia, strappa vestiti da un individuo/testo già coperto di stracci. Lascialo al freddo. Guardalo mentre trema. Riduci al minimo le informazioni. Ora sì, puoi cominciare a lavorare.
Posa le forbici e prendi l’ascia. Decidi che presentare in Italia un testo che parla slang irlandese, riferendosi a film irlandesi, canzoni irlandesi, sogni irlandesi non avrebbe senso. Allora a quel film famoso dalla famosa colonna sonora, il fil rouge che unisce i tre personaggi, sostituisci la Laura Pausini de “La Solitudine” e di Sanremo ’93; allo slang dei suburbs dublinesi sovrapponi quello veneto, tronco e severo. Perfetto. Massacralo, quel testo, cammina sui resti e poi lasciateli alle spalle. Sei in cerca di qualcosa di più. Ogni albero, nascosta sotto dita e dita di legno che testimonia anni, porta quella secrezione fluida che ha dato vita a tutto. La linfa.
Il risultato di tutto questo è Terminus nell’allestimento di Babilonia Teatri.

In scena svettano tre bare chiuse, entra Simone Brussa in abiti da tecnico di palco e, con tutta la calma possibile, toglie le viti che le sigillano, a scoprire i tre personaggi che, grazie a dei cartelli, hanno per nome A, B e C.
A (Valeria Raimondi): donna, 40 anni, assistente sociale. Alla disperata ricerca di qualcuno da salvare. Qualcuno per cui essere davvero indispensabile.
B (Ilaria Dalle Donne), quella figlia ventenne depressa da cui lei vorrebbe tanto tornare per esser madre, muore cadendo ubriaca da una gru. A la rincontrerà solo alla fine, reincarnata in un neonato. Senza saperlo salverà proprio la figlia, tirandola fuori dall’utero di una donna investita da un camion.
Al volante c’è C (Enrico Castellani), 30 anni, in fuga dalla polizia dopo aver massacrato due uomini: solo nel sangue trova la consolazione per un’inguaribile inettitudine nei rapporti con le donne.
Un triangolo doloroso, quello di O’ Rowe che, se non bastasse, complica il tutto inserendo elementi sovrannaturali: C vende l’anima al Diavolo per avere una voce come Laura Pausini e diventare famoso. La sua anima, sdegnata, diviene un angelo traghettatore di morti che, incaricato di portare in cielo B dopo il volo dalla gru, ne approfitta per sentire finalmente un po’ di calore. I due hanno un glorioso rapporto sessuale, poi l’anima di C torna a vendicarsi del proprio corpo: lo preleva dalla scena dell’incidente e lo punisce impalandolo e sbudellandolo brutalmente, mentre il Diavolo paga infine il proprio debito. C canterà a squarciagola; insieme alle interiora uscirà una splendida nuova voce e C intonerà la sua canzone preferita, “La solitudine” di Laura Pausini.
Ecco come le tre voci s’incontrano nel testo di Terminus, tramite una liaison ultraterrena d’anime vendute e reincarnazioni, e con il tornare – catartico e liberatorio per tutti – di quello stesso tormentone piantato in testa da Sanremo ‘93.

Piazzato di diffusori al 100% d’intensità, zero effetti, zero controluce, zero fondale. Abiti approssimativi, pugni visivi negli occhi. Musica assordante. Terminus è volgare. Crudo, duro e immangiabile come grasso appena tagliato da una bestia morta di vecchiaia. Eppure condotto con una misteriosa finezza. Misteriosa perché all’apparenza non esiste alcuna pietà, né per gli attori – confinati in un’immobilità disarmante – , né per gli spettatori – presi a schiaffi da immagini di una violenza barbara. Finezza come dire astuzia, in quanto, paradossalmente, sarebbe stato molto più rischioso per gli artisti tuffarsi in un’interpretazione naturalista, ché forse poi non sarebbe stato comunque possibile ritrarre a pieno personaggi guidati da monologhi spesso somiglianti a flussi poetici in tutto e per tutto.
Allora interviene la scelta estrema, quella di cui Babilonia vuol essere ed è maestra: cancellare ogni inflessione e lasciar nuda la voce. Enrico Castellani ci racconta che solo così riesce a trasmettere completamente la forza titanica che le parole hanno in potenza.
Liberare i tre attori dalla bara del personaggio, perché possano davvero dire, e non interpretare. Perché possano davvero staccarsi da un corpo terreno e morire da voci sole, una volta per tutte. Ed è la catarsi. Anche qui, una catarsi mai semplicistica, la cui spudorata esposizione (la cascata di fiori finti e il trashissimo canto a squarciagola appresso alla Pausini) porta in se stessa la contraddizione, come se non riuscisse comunque ad avvenire. Sarà perché una reale liberazione dal personaggio non si realizza: A, B e C restano A, B e C.
A confermarlo sono i cartelli affissi sopra alle bare, che si spostano con loro. I personaggi restano. Non basta azzerare l’emozione nella voce, perché un attore non è solo voce. E se poi, in sostituzione dell’interpretazione, vengono distribuiti a quelle tre voci altrettanti diversi stop di volume (Raimondi scandisce, Dalle Donne è monocorde, Castellani urla) non significa che togliere qualcosa per dare qualcos’altro, se possibile, ancora più caratterizzante. E ancora più doloroso.

Forse il punto sta proprio in questo: l’idea resiste nel fatto che un dolore totale non possa mai essere snaturato del tutto. Sotto al pianto trovi l’apatia, sotto la rabbia il rancore. Se gratti via la crosta, la ferita ricomincia a sanguinare.
Allora, a chi è rinchiuso in una trappola (la bara) non c’è bisogno di vietare di muoversi, di spostarsi, tanto finirà comunque per trovarsi avvitato in un’altra bara. Crudele Babilonia.
Sta al pubblico, poi, decidere se qualcosa riesca a salvarsi da questo cataclisma. Se B e C trovano sollievo solo nel trapasso, A, l’unica ancora in vita, riesce sì a salvare qualcuno, ed è magnifico e toccante che si tratti della figlia. Peccato che lei non lo saprà mai.

TERMINUS
di Mark O’Rowe
produzione: Babilonia Teatri
realizzato da: Enrico Castellani, Ilaria Dalle Donne, Valeria Raimondi, Vincenzo Todesco
interpreti: Enrico Castellani, Ilaria Dalle Donne, Valeria Raimondi, Simone Brussa
scene: Babilonia Teatri/Gianni Volpe
costumi: Babilonia Teatri/Franca Piccoli
luci e audio: Babilonia Teatri/Luca Scotton
durata: 50’
applausi del pubblico: 2’ 40’’

Visto a Roma, Teatro Belli, il 10 ottobre 2008

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