La Roma con l’aroma di maggio riserva belle sorprese a chi, prima di godersi i refoli primaverili sul lungotevere, decide di passare un paio d’ore fra i cortili popolari della Garbatella, dove il festival Teatri di vetro, come già abbiamo detto nei giorni passati, propone anche quest’anno una ricca rassegna di drammaturgia contemporanea e gruppi emergenti.
Per assistere alla prima performance della serata non dobbiamo neanche entrare al Teatro Palladium. A pochi passi dall’ingresso, infatti, ci aspetta la monovolume di Tamara Bartolini e Michele Baronio: per assistere a “Tu_two” si sale in sei alla volta, tre nei sedili posteriori e tre su una panca inserita nel bagagliaio.
Non fosse che ci siamo prenotati e informati sulla durata della performance, e non avessimo parlato prima con chi ha già condiviso con gli attori i nove minuti scarsi d’abitacolo, avremmo più di una preoccupazione nel salire a bordo, visti i vetri oscurati e il non rassicurante pugno sul cruscotto con cui Baronio dà, a chi è fuori, il segnale d’apertura delle portiere. E invece, una volta dentro, ci vuole poco a partire con la fantasia e immaginarci su chissà quale italiana versione della Route 66.
Bartolini e Baronio non ci guardano, proiettati forse sulle linee bianche e tratteggiate dei chilometri d’asfalto. L’autoradio, però, non ci blandisce come faceva il jazz con Allen Ginsberg; nessuna preghiera mistica e blasfema dalle casse, nessun jukebox all’idrogeno, ma un intenso accavallarsi di voci che raccontano in pochi minuti un’intera epoca italiana: Pasolini, Carlo Giuliani, la Diaz, rumori confusi come le ideologie sfinite.
Costretti a condividere l’intimità di menti e corpi, ci trascina con sé l’energia di un bacio disperato, che nell’imbarazzarci mette in mostra il disagio per noi stessi, per quell’impotenza da poter trasformare in incontro con l’altro, senza però mai sapere se quest’incontro è un ritrarsi o un esporsi. E anche mascherarsi e cantare una canzone d’amore, allora, è qualcosa a metà fra un’estrema speranza e un testamento. O magari è proprio l’estrema speranza di un testamento.
Entrati nei più canonici spazi del Palladium, ci aspetta “Porco mondo” della compagnia Biancofango. E per certi versi lo straniamento, quella non completa presenza di sé a sé stessi, continua.
Sul palco una coppia in abiti eterei, che subito contrastano con la pesantezza delle espressioni sui loro volti e con le posture nervose dei corpi. Fin dai primi movimenti la scena sembra raccontarci una storia di opposti che si scontrano, guardano, attraversano, senza tuttavia mai davvero incontrarsi. Così, la figura possente di Andrea Trapani si presenta muovendosi ‘en pointe’ come una ballerina, mentre Aida Talliente si gonfia della forza che non avrà per tutto il resto dello spettacolo.
Sono una coppia senza nomi, due individualità irrelate, sospese nel vuoto di una scenografia assente (a parte due sedie, un panettone e una bottiglia di spumante, oggetti che in corso d’opera i due attori maltratteranno oltremodo). Sappiamo soltanto di essere a Natale, sotto la neve. Lui, abbandonate le velleità della danza, assume una posa violenta, bullesca, in qualche modo volgare; ma il tutto stona, per confermare la centralità del gioco degli opposti, con il suo eloquio effeminato, quasi in falsetto. Racconta del sesso virtuale in cui cerca ciò che non riesce a trovare nelle relazioni vere, e ancora una volta due poli si scontrano: un uomo di trentanove anni e una ragazzina di tredici.
La Talliente si camuffa da Marylin Monroe, vuole sorprendere il suo uomo ma non riuscirà neanche lontanamente a colpirlo, sia per le proprie nevrosi, che la portano a gesti e frasi inconsulte, sia perché da entrambi emerge un franco disinteresse per l’altro. Un disinteresse che è, in fondo e soprattutto, per sé stessi.
La messa in scena punta molto sulla commedia non dialogata, muta o fatta di versi, mugolii: la comunicazione della coppia sta tutta in parole e frasi scivolate per caso, un brusio, simile a quelli di certi talk show televisivi, in cui tutti si parlano addosso e dal chiacchiericcio insignificante spunta l’urlo di chi sa gridare più forte, qualche secondo di picco vocale, e poi di nuovo giù, nel limbo dell’indifferenza. Fra i due, a tratti, baluginano come luci sfocatissime in un mare di nebbia dei momenti di legame più vero, cenni d’intesa, sguardi di parziale attenzione; e non si riesce mai a capire se emergono ricordi di un passato migliore, o se un passato fra i due c’è davvero mai stato.
Si vorrebbe almeno riuscire a fare del male all’altro, per sentirsi e sentirlo vicino, ma neppure questo riesce: non resta, allora, che contemplare la corsa lontana di un tram, le persone alla fermata, il paesaggio urbano; contemplare con sguardo vuoto, solo come disperato tentativo di nascondersi alla disperazione. Fra le poche scosse, un impeto priapesco di Trapani, cui basta sentire la parola “Presidente” per scatenarsi col bacino; va detto, una scenetta neanche troppo irreale. E gradualmente l’involuzione di questa relazione umana si spinge verso l’animalità.
Per questi due personaggi sarebbe stato meglio se il Natale non ci fosse mai stato, perché come una cartina da tornasole ha messo a fuoco la totale assenza di prospettive. I momenti migliori dello spettacolo sono quelli più caricaturali e spinti, come si diceva, verso la commedia muta: come quando il panettone viene sventrato e diventa, da consumistica celebrazione, il canale di sfogo di una violenza bulimica, autodistruttiva.
Nonostante la sconvolgente sensazione di trovarci di fronte al ritratto di una coppia che non sarebbe difficile trovare fra quei giovani distrutti, loro malgrado, dalla non-cultura degli ultimi vent’anni italiani, rimane anche il dubbio che il lavoro di Biancofango sia ancora incompleto e un po’ troppo grezzo: dietro queste esistenze vacue, capaci di farci davvero paura perché esistono e ci sono vicine, e forse ci somigliano, è di certo possibile scavare di più, esplorare il niente più a fondo, tracciare un percorso fra gli antri ancora più laidi, lasciandosi pure sorprendere – come diceva Calvino – da tutto ciò che nell’inferno non è inferno. Per ripartire da lì, magari, ma anche solo per denunciare quanta poca autenticità si sia salvata nei nostri tentativi di vita condivisa.
Tu_two
di e con: Tamara Bartolini, Michele Baronio
soundscape: Renato Ciunfrini
durata: 9′
Porco mondo
drammaturgia: Francesca Macrì e Andrea Trapani
regia: Francesca Macrì
con: Aida Talliente e Andrea Trapani
disegno luci: Luigi Biondi
produzione: Biancofango, La Corte Ospitale, OFFiciNa1011 di Triangolo Scaleno Teatro
durata: 60′
applausi del pubblico: 2′
Visti a Roma, Teatro Palladium, il 18 maggio 2012